
Uno due tre quattro. È così che si apre il sito dell’archivio Vincenzo Agnetti, per chi ha la fortuna di visitarlo con il volume alto. Altrimenti, è vero, ci si perde qualcosa; ma forse il motivo principale per cui vale la pena conoscere questo artista è proprio che egli è la dimostrazione che non ha sempre senso avere nostalgia delle cose perse. Perché le cose che verranno sono altrettanto valide, pregne dell’esperienza passata, assimilata e poi lasciata andare o, come direbbe il titolo di una delle sue opere più celebri, “dimenticata a memoria”.

Vincenzo Agnetti nasce a Milano nel 1926. Durante i primi anni da artista “informale” affianca Piero Manzoni ed Enrico Castellani nella gestione della galleria e dell’omonima rivista <>, fino a quando, nel 1962, lascia Milano per l’Argentina. Il periodo che segue si può interpretare come una sorta di pausa dall’arte (Agnetti continuava a lavorare nel campo dell’automazione elettronica), come un bel respiro preso a pieni polmoni prima del grande salto per tornare a Milano nel 1967, nella città che gli darà di nuovo i natali, stavolta da artista. Gli anni trascorsi all’estero e poi il ritorno in Italia, fino alla creazione nel 1969 dell’opera Dimenticato a memoria, costituiscono il periodo del “liquidazionismo” o “arte no”, le cui opere sono andate perdute, così come le poche informazioni biografiche sull’artista.
“Arte no era il rifiuto di dipingere, era la presenza a costo della crisi psicologica, era la presa di coscienza, erano i viaggi, il lavoro basso, sordo, per una libertà vera, era essere rivolto verso nuovi orizzonti. […]
Di quel periodo ricordo le cavalcate sulla spiaggia insieme a lui, la pesca lungo i fiumi, il mate assaporato nei momenti di riposo nelle estancias e poi i suoi quaderni, in primo piano. In quegli anni mio padre scriveva incessantemente in ogni momento libero. Questi quaderni, al contrario di altri lavori precedenti, ci sono rimasti.”

Agnetti non prova nostalgia per quell’arte che egli nega e cancella; va avanti, piuttosto, e crea qualcosa di nuovo, perché le esperienze “liquidate” (non solo quelle artistiche) non sono andate perse: un appello a vivere il presente e appropriarsene tanto da lasciarlo andare, con tutto quello che ha portato, e a non averne nostalgia, perché rivivrà, perché lo conosceremo a memoria, come l’alfabeto, o come l’uno il due il tre e il quattro.
Alla domanda tipica del Novecento sulla possibilità di comunicare in maniera veramente autentica Agnetti risponde con uno sguardo sul mondo fatto di un’interessante fusione tra parola e immagine. E se comunicare il mondo a parole è l’obiettivo, non resta che dipingerne gli abitanti: dal grembo del ritratto nascono i Feltri, incisi a fuoco e dipinti, che ricordano un po’ un epitaffio, un riassunto da fine del mondo, tanto lapidario quanto preciso, tanto da non lasciare spazio alla nostalgia dei volti e delle figure canoniche del ritratto così come lo conosciamo.

Agnetti trova un modo efficace per rappresentare l’impossibile, eppure la domanda sull’autenticità rimane, anche quando il soggetto è l’autore stesso: “Quando mi vidi non c’ero”, dice l’Autoritratto, come ad affermare che descriversi, e farlo in maniera verosimile, è impossibile. Guardarsi allo specchio il tempo giusto per tornare alla tela – o al feltro, in questo caso – e dimenticarsi, sfuggirsi, non sapersi spiegare; non saper inquadrare sé stessi o gli altri in un’unica forma, eterna. È l’occhio di un critico, o quello di un poeta, che fa del linguaggio la chiave della sua ricerca; è quindi fondamentale la scelta delle parole, che portano in seno ciò che allo stesso tempo è il loro pericolo e valore: la relatività di significato. Se ogni parola ha in potenza un’interpretazione relativa, davanti a noi non si schiude un’opera sola, bensì centinaia, migliaia o nessuna. E nel caso dei ritratti non una persona sola, ma infinite diverse versioni dello stesso topos (l’Amante, il Viandante, Dio). Acquisiamo quindi un potere che è quello che ci dona l’arte vera di tutti i tempi: quello di farci spettatori e creatori allo stesso tempo, non alla ricerca di un significato didascalico, ma lettori critici del tempo che stiamo vivendo.

È questa la potenza di Agnetti oggi: l’opera parla, e lo fa con parole di un linguaggio che per noi è comune, accessibile; eppure sotto c’è qualcosa, dietro ad ogni parola è implicita l’ambiguità di un lavoro che di fondo è critico, grammaticale, e pone le sue fondamenta su quella che è la nostra capacità migliore, ma anche la più negletta: la comunicazione. È un invito a sforzarci di creare una relazione tra noi e il pensiero. L’immagine ci parla, stavolta in senso letterale: sta a noi decidere quale sarà il registro di lettura con cui la osserveremo, assimileremo e, nel migliore dei casi, dimenticheremo a memoria.
Maria Allegretti
Germana Agnetti, Quando mi vidi non c’ero. Una biografia di Vincenzo Agnetti .