Regina José Galindo e Carlos Martiel: una lettura di genere

Carlos Martiel, Marea, 2009.

Due sono i corpi, simboli della memoria collettiva; due gli artisti, Regina José Galindo guatemalteca e Carlos Martiel cubano. Entrambi si muovono in realtà in cui la violenza e la morte convertono in uno “spettacolo quotidiano”, entrambi vessano, sotterrano, incatenano, crocifiggono il corpo. Unico dispositivo che restituisce, attraverso l’azione artistica, la visibilità a “un individuo giuridicamente inclassificabile”. Attraverso però una prospettiva di genere, questi stessi corpi sociali si inseriscono in sfere diametralmente opposte. La base di partenza è la storia, intesa come concatenazione di azioni reiterate che giungono ad un risultato, quello stesso che vede la storia delle donne quale sottogruppo specialistico della più ampia e istituzionale “Storia”. Partendo da questo assunto, lo stesso che ha mosso le azioni delle femministe sin dagli anni Sessanta e gli studi di genere, si può operare una rilettura delle opere corporali dei due artisti ispano-americani.

Regina José Galindo, Nadie atraviesa la región sin ensuciarse, 2015.

Carlos Martiel denuncia i soprusi subiti dalle minoranze etniche; razzismo, abusi di potere e discriminazioni. Un corpo nero, disteso e inerme, è testimone dell’azione repressiva del colonialismo e del neocolonialismo nella performance “Trophy” presentata al Padiglione D’Arte Contemporanea di Milano. In posa embrionale, questo corpo sembra ricordare l’opera “San Sebastiano”, il martire trafitto di Andrea Mantegna, le cui frecce scorrono sottopelle per aumentare il senso tragico di dolore. Il dramma nell’opera di Martiel è restituito invece dalla posizione del soggetto che domina uno spazio vuoto, che ferito tace restituendo cosi l’immagine più immediata del soggetto vulnerabile.

L’identità africana viene ritratta sullo sfondo del trauma della separazione nell’opera “A donde mis pies no lleguen”, in cui il corpo anestetizzato dell’artista rimane immobile su una barca blu, cullato dalle onde del fiume. Qui la problematica migratoria è al centro del discorso dell’artista cubano e viene restituita non come “affanno di ritorno” ma come processo di riconoscimento storico della nozione di esistere in due continenti diversi. L’arte di Carlos Martiel, chiamata “Afroamerica”, tenta di ri-scrivere il colonialismo visualizzando il soggetto subalterno: “Ri-scrivere il colonialismo significa averlo “digerito” in modo tale da svanire come categoria determinante e aprire una nuova indagine sul contesto sociale” (Alfonso de Toro).

Carlos Martiel, Trophy, 2016.

Regina José Galindo nasce a Città del Guatemala nel 1974, la genesi della sua arte prende le mosse dalla poesia, musa ispiratrice delle prime opere performative, gioca un ruolo fondamentale nel corpus artistico dell’artista guatemalteca. La prima performance “El dolor en un pañuelo” risale al 1999 e rappresenta uno dei lavori tratti da un previo testo scritto. Già nelle prime azioni, l’arte impegnata della Galindo segue il fluxus di un’estetica ben precisa che tenta di fagocitare la violenza per scoprirne le radici e restituirla nella sua forma più elementare di “nuda veritas”. L’artista mette alla prova in primo luogo sé stessa, e nell’agonia dell’azione artistica non è mai eroe o protagonista, è corpo, carne, cadavere, altre volte è voce, verso, vessazione; un atto performativo in cui è manifesta la sofferenza della condizione umana senza mai prendere il posto delle vittime o pretendere di condividerne il dolore. La sua arte è resistenza, il corpo che resiste attua un’azione mirata che lo trasforma nell’antagonista del potere, potere patriarcale, nell’azione del 2013 “La verdad”: Regina Galindo legge le testimonianze dei sopravvissuti al conflitto armato in Guatemala, la sua azione verrà interrotta da un infermiere che attraverso un’iniezione anestetizzerà la bocca dell’artista. Ed è hic et nunc che la performer si fa portavoce della parola del suo popolo e resistendo all’anestetico silenzio del potere imposto, tenta di riempire un vuoto, di visualizzare la ferita su un corpo ancora vulnerabile a causa de una violenza mai finita. Un corpo altre volte lacerato come nel caso della performance “perra”: l’artista si incide con un coltello la parola “perra” (cagna) sulla gamba sinistra. Un modo per denunciare i crimini contro le donne commessi in Guatemala, dove sono stati rinvenuti corpi torturati e sui quali erano state incise delle frasi con coltelli o rasoi. Qui, il corpo di donna oggetto di violenza si erge a corpo di donna che nell’atto autolesionistico rinasce individuo libero, sovvertendo le logiche della violenza machista, coinvolgendo lo spettatore che “in presenza” vive il processo di lacerazione.

Carlos Martiel, A donde mis pies no lleguen, 2011.

Entrambi gli artisti fanno del corpo il soggetto che rende visibile una condizione di marginalità ma risulta evidente, come il corpo reso visibile dall’artista Carlos Martiel sia un corpo di subalterno sempre immaginato, discusso e descritto da quella “Storia” istituzionale fatta dagli uomini e scritta per gli stessi. Nelle opere della Galindo il corpo marginale e subalterno risulta invece plurime volte vessato e ha bisogno di un riconoscimento, di un atto di visualizzazione radicale perché sempre soppresso e taciuto. Sicché, l’obiettivo di svelamento nelle opere della Galindo si spinge oltre, fino ad incontrare il terreno impervio della storia, la storia delle donne, da sempre mero compendio accessorio; attraverso le ricostruzioni (a volte testimonianze) dell’artista guatemalteca quelle donne, queste donne, noi donne universali ci arroghiamo il diritto di esistere, fuori e dentro” La Storia”.

Regina José Galindo, perra, 2005.

Teresa Straface

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