– Il caso George Floyd –
Il 25 maggio scorso un uomo afroamericano, George Floyd, è stato ucciso da un agente di polizia di Minneapolis, Derek Chauvin: questo ha riportato nuovamente all’attenzione la questione dei soprusi vissuti dalle persone nere da parte delle forze dell’ordine. Non che prima non se ne parlasse, in fin dei conti anche lo stesso movimento Black Lives Matter, che negli ultimi giorni è al centro della questione Floyd, esiste dal 2013, e nasce proprio in seguito all’uccisione di un ragazzo di 17 anni afroamericano, Trayvon Martin. Sul web è possibile trovare moltissimi video delle brutalità delle forze dell’ordine di questi giorni, e delle manifestazioni di protesta da parte di cittadini afroamericani e di persone a sostegno della comunità nera.


Lo strumento di condivisione dei dati diventa, ancora una volta, fondamentale, e ci obbliga a porci delle domande: il video della morte di qualcuno può essere più utile al fine di entrare in empatia con la causa? Il video è sicuramente più immediato di tanti altri mezzi di comunicazione, ma dobbiamo chiederci se senza le immagini di George Floyd sdraiato a terra avremmo avuto la stessa prontezza e forza nel condividere in massa la notizia. C’è da chiedersi, poi, se questo modo di fare informazione sia giusto o meno. Molte persone afroamericane hanno fatto notare che condividere continuamente questi video, senza che ci sia un filtro iniziale, o un avvertimento che dichiari la forme esplicita delle immagini, non fa altro che traumatizzare nuovamente un popolo che sa benissimo quanto siano violente le forze dell’ordine.

Tante volte le persone afroamericane hanno subìto atti di violenza negli Stati Uniti, ma raramente c’è stata questa risonanza mediatica. È più facile empatizzare col dolore quando lo si vede in maniera così chiara, ma vedere è diverso da empatizzare: i poliziotti presenti sulla scena della morte di George Floyd hanno certamente visto quanto stava accadendo, ma non hanno mosso un dito. Serve a poco condividere dei video se poi non facciamo nascere in noi una spinta a cambiare, a informarci, a cercare di capire qualcosa di più delle questioni che affondano le radici in dinamiche così complesse.
– L’intersezionalità come lente di analisi –
Partendo dalle basi, sicuramente il modo vincente per entrare in contatto con questioni del genere è analizzarle con la lente dell’intersezionalità. Il termine “intersezionalità” è stato coniato per la prima volta nel 1989 da Kimberlé Williams Krenshaw, giurista e attivista statunitense, per descrivere la sovrapposizione e compartecipazione, a livello sociale, di diverse entità sociali o discriminazioni. In un ted talk, dal titolo “The urgence of intersectionality”, la Krenshaw parla proprio di questo, di come molte lotte abbiano una radice comune, e di come, invece, non guardando ad esse in una maniera interconnessa si rischi di dimenticarsi di aspetti importanti della stessa questione. Nel ted talk lei dimostra come sia fondamentale parlare di intersezionalità: un esempio che lei porta avanti riguarda la morte delle donne nere, di cui abbiamo sempre meno memoria rispetto a quanto non avvenga invece per gli uomini neri. Una lotta intersezionale significa guardare al problema in modo unitario, capendo che le basi di un pensiero razzista, misogino e xenofobo risiedono in tanti aspetti diversi, e che solo osservandoli nella collettività sarà possibile comprenderli in modo significativo. Abbiamo notizia di moltissime donne nere uccise dalla polizia: Breanna Taylor uccisa il 13 marzo scorso con otto colpi di pistola da poliziotti a casa sua; Atatiana Koquice Jefferson, uccisa il 12 ottobre 2019 a casa sua nel Texas da un agente di polizia. Solo per citarne un paio.

Se non ci fossero le notizie saremmo legittimati a non parlarne, ma non è questo il caso. Ragionando in un’ottica intersezionale occorre chiedersi quali siano le lotte che le donne nere portano avanti, e se siano solo lotte legate al loro essere donne nere, o lotte legate al loro essere donne. Come ci spiega Toni Morrison, scrittrice statunitense, nel suo libro Beloved, del 1987, le donne afroamericane hanno vissuto con paura la loro maternità ai tempi della schiavitù, in quanto consapevoli che i loro figli sarebbero potuti morire o essere portati via da loro violentemente, anche prima della fine dell’allattamento. Ancora oggi le donne afroamericane possono sperimentare questo stato d’animo, come fosse una memoria generazionale, seppur vissuta diversamente rispetto al passato. È il caso di Diamond Reynolds – compagna di Philando Castile, ucciso il 6 luglio 2016 da Jeronimo Yanez, un poliziotto ispanico-americano del Minnesota, mentre era in macchina assieme alla compagna e alla figlia – che si è trovata da un momento all’altro ammanettata, nell’impossibilità di abbracciare e tranquillizzare la figlia, e ignara del futuro del suo compagno. In quella situazione la figlia, di soli 4 anni, ha cercato di consolare la madre, dicendole “I don’t want you to get shooted, I can keep you safe” (“non voglio che ti sparino, posso proteggerti”), dandoci così una testimonianza di come i bambini afroamericani subiscano un carico emotivo enorme – cosa che i bambini bianchi generalmente non vivono – perché consapevoli che i loro genitori possono essere più in pericolo. Di questo, però, ci dimentichiamo sempre. Perché quindi, tornando al caso di George Floyd, la morte degli uomini neri è più visibile di quanto non avvenga per quella delle donne e dei bambini?

– Il caso Tony McDade –
Volendo ragionare per un momento in un’ottica maschile, però, ci rendiamo conto che anche in questo caso non tutti gli uomini sono uguali. È il caso di Tony McDade, uomo trans afroamericano, ucciso il 27 maggio scorso da un ufficiale della polizia di Tallahassee. Come mai, però, il suo nome non è al pari di quello di George Floyd? Come mai il suo nome lo ricordano in pochi? Magari qualcuno di noi non ha neanche mai sentito parlare di lui, mentre sicuramente avrà sentito, almeno una volta, di Floyd. Le motivazioni sono molteplici: innanzitutto a morire è stata una persona trans, e questo non è un fattore secondario o da sottovalutare; inoltre il contesto della morte di McDade non è chiaro se sia di innocenza o meno, ma in ogni caso questa non sarebbe stata comunque una scusa valida per uccidere una persona; manca un video ravvicinato della sua morte, al contrario di quanto non è avvenuto con Floyd.

Volendo cercare di capire meglio le dinamiche che hanno portato alla morte di Tony McDade dobbiamo partire da una live di facebook registrata da lui stesso la notte prima di morire, nella quale racconta di essere stato attaccato da cinque uomini, e manifesta la volontà di vendicarsi, mostrando una pistola. Guardando la live, potremmo etichettarlo subito come un potenziale criminale, dato che poi ha avuto, nel corso della sua vita, diversi problemi con la legge: è stato in prigione, e soprattutto minacciava di vendicarsi del torto subìto in maniera molto esplicita. Andando avanti con la live, però, quello che è agghiacciante è sentirlo parlare degli episodi traumatici della sua vita: lo zio ha violentato la madre quando lei aveva solo 5 anni (“My mother’s virginity was broken by her uncle at 5”); lui è stato violentato ripetutamente per 12 anni, senza che però nessuno sapesse nulla (“I been raped repeatedly for 12 fucking years but ain’t nobody know about that”), così come nessuno ha mai saputo che la madre è stata violentata anche quando era incinta di lui (“Nobody knows my mother was raped when she had me in her belly”). Secondo le ricostruzioni dei giornali locali, basate sulle testimonianze delle persone presenti al momento della morte di McDade, il poliziotto sarebbe uscito dalla macchina e, senza dire neanche “mani in alto”, avrebbe sparato sette od otto colpi di pistola; dopo aver sparato avrebbe continuato a puntare l’arma al corpo di McDade ormai a terra e poi, forse dopo essersi conto di ciò che aveva fatto, sarebbe scappato (Testimonianza twitter di uno dei presenti: “All black on, as soon as he got out the car he said nothing he just started shooting, 7 or 8 rounds, he was down but he was still stood there pointing the gun”). Ancora non si sa quale sia il nome del poliziotto, ma la comunità ha richiesto che venisse aperta un’inchiesta. Tony è l’esempio, uno dei tanti purtroppo, di come si può morire per mano di un poliziotto, ma anche a causa di una condizione sociale di profondo disagio e dolore: il supporto psicologico che gli sarebbe servito è stato sostituito dal carcere, un sistema che non educa, ma che abbrutisce. Ricollegandoci a quanto detto prima, Tony ha subìto discriminazioni e violenze in quanto percepito per anni come donna nera, poi come uomo nero dal poliziotto e, in quanto uomo nero, pericoloso a prescindere. Anche all’interno della comunità trans, però, non tutte le notizie hanno lo stesso peso, ed è il caso di Nina Pop, donna trans nera trovata morta a casa sua il 3 maggio scorso: le motivazioni della sua morte non sono ancora chiare del tutto, ma la polizia propende per l’ipotesi di un crimine dovuto all’odio razziale e transfobico. Ancora una volta, quindi, anche all’interno della stessa comunità le notizie hanno un peso diverso e le donne, che siano cis o trans, hanno sempre meno importanza e risalto di quanto non ne abbia un uomo. Inoltre queste donne non hanno da temere solo la polizia, ma anche un eteropatriarcato violento che minaccia le loro vite persino quando scendono in piazza con Black Lives Matter: è il caso di Iyanna Dior, pestata durante una manifestazione.

Il discorso sul razzismo e la violenza negli Stati Uniti è talmente ampio che, in questa sede, non sarebbe neanche opportuno addentrarsi ulteriormente nelle dinamiche che hanno prodotto i cambiamenti ai quali assistiamo oggi. Dobbiamo ricordare però, ancora una volta, che una lotta intersezionale alle discriminazioni e alle violenze è l’unico modo che abbiamo per modificare un sistema di valori consolidato in secoli di imperialismo e patriarcato, di modo che ogni vita avrà lo stesso peso, e ogni morte la stessa importanza, così da ricordare George Floyd, ma anche Tony McDade; Breanna Taylor, Yianna Dior e Nina Pop. Questo ce lo insegnano i moti di Stonewall, portati avanti da Marsha P. Johnson e Stormé DeLarverie, le due paladine del movimento, che hanno iniziato una protesta per riaffermare i loro diritti in quanto drag queen, lesbiche nere, persone trans e queer. Ecco a loro dobbiamo tutto, perché la loro lotta era intersezionale e libera, basata sulla protesta contro le violenza della polizia e sulla riaffermazione della validità delle loro soggettività in quanto persone queer e nere.


Non abbiamo bisogno di un video per imparare che la vita va protetta, a prescindere da tutto, e che la morte, ancora di più se brutale, deve spingerci a cambiare qualcosa.
L’informazione è un campo minato: armatevi di cultura.
No justice, no peace.
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Ludovica Bernazza e Livia Fierro