“Egon Schiele: La morte e la fanciulla”, il film del 2016 dedicato all’artista simbolo della Secessione viennese

È tra le macerie della Vienna del 1918 che il regista Dieter Berner apre la sua pellicola conducendoci nella casa di Egon Schiele, che troviamo accanto al letto di morte della moglie, Edith Harms, in preda ai sudori dell’influenza spagnola. Egon siede su uno sgabello, addormentato con un blocco da disegno tra le mani, poche linee abbozzate. La sorella dell’artista, Gerti, in visita presso l’abitazione del fratello, lo osserva, ricordando di quando usava posare nuda per lui, in qualità di sua prima musa e modella.

Noha Saavedra in “Egon Schiele: la morte e la fanciulla” di D. Barner, 2016.

Con un flashback che ci riporta nel 1910, il film racconta la breve ma intensissima vita di un uomo, un ragazzo – morirà a soli 28 anni – ossessionato forse da sole due cose: se stesso e i corpi femminili. Lo vediamo mentre si osserva allo specchio, alzando il mento, rivolgendo un sorriso al suo riflesso, costantemente alla ricerca di un’alterità.

Egon Schiele, “Autoritratto con lanterna cinese e frutta” (particolare), 1912, olio e colore coprente su tavola, Leopopld Museum, Vienna.

Lo sentiamo chiedere alle sue modelle di spogliarsi e di lasciare indosso solo scarpe e calze, trasformando i loro corpi in malinconici grovigli di linee spezzate. Egon parla attraverso il corpo femminile, ognuno diverso ma simile a tutti gli altri, in quel comune senso di abbandono e rassegnazione. Le pose provocanti che rasentano l’osceno sono frutto di un’attenzione quasi scientifica da parte del pittore, che ricerca volgarità e crudezza nei corpi che ritrae. Non è infatti un caso che questo aspetto della sua arte sarà motivo di polemica con sua moglie Edith, la quale dopo un certo periodo passato a posare per lui, si rifiuterà di farlo ancora, umiliata nel vedersi raffigurata come le altre decine di modelle passate tra le mani del marito.

Egon Schiele, “Nudo femminile sdraiato con gambe divaricate”, 1914, gouache e matita, Albertina, Vienna.

Sono tante le donne che popolano i fogli di Egon e per le quali, allo stesso tempo, egli ha riservato un pezzo di cuore: dalle già citate Gerti e Edith, alla bella modella tahitiana conosciuta al Prater di Vienna, e a Wally, incontrata nello studio del suo maestro e collega Gustav Klimt, con la quale visse per quattro anni. È sua la chioma rossa protagonista di tantissimi disegni e dipinti, ma soprattutto è lei la ragazza accovacciata tra le braccia della morte, in quell’abbraccio che trascende tempo e spazio di cui Berner propone un’emozionante ricostruzione, toccando forse l’apice emotivo del film.

Egon Schiele, “La Morte e la fanciulla”, 1915, olio su tela, Belvedere Museum, Vienna
Noah Saavedra e Valerie Pachner in “Egon Schiele: la morte e la fanciulla” di D. Berner, 2016.

La grande tela La Morte e la fanciulla congela l’ultimo saluto tra i due amanti, al culmine della loro storia d’amore, ormai definitivamente terminata a causa del matrimonio di Egon con Edith. L’opera verrà esposta durante la 49esima mostra della Secessione Viennese nell’omonimo Palazzo, sotto il fregio di Beethoven di Gustav Klimt. Dopo il doloroso addio, Wally presterà servizio al fronte come crocerossina e morirà di febbre scarlatta, in Dalmazia, mentre Egon Schiele morirà il 31 ottobre 1918 per influenza spagnola.
Il film si chiude con la cinica scena del notaio che conta i disegni rimasti in casa di Egon per valutarne l’importo da dividere tra la madre e la sorella, insieme ai mobili e altri oggetti preziosi.
Il film scorre dolcemente, facendo leva su molteplici punti di forza, a cominciare proprio dall’interpretazione di Noah Saavedra, che riveste i panni dell’artista in modo schietto e senza filtri, mettendo in risalto l’impulsività e la passione che costituiscono i tratti salienti del giovane talento. Ma anche la puntuale e suggestiva ricostruzione degli ambienti di lavoro del pittore e della mostra della Secessione Viennese contribuiscono a restituire una narrazione coerente e storicistica. Sono 110 minuti dinamici, che non annoiano e non scadono nel sentimentalismo, rischio forse alto quando si ha a che fare con una personalità dalla vita così intensa e attraversata da così forti emozioni.
La pellicola di Berner non ha la pretesa di raccontare tutta la complessità del personaggio, ma vuole avvicinarci ad un artista incredibile e molto spesso sottovalutato, che con la sua arte dialoga con la parte più recondita e repressa dello spettatore contemporaneo, andando a risvegliare dolcemente e allo stesso tempo con inaspettata violenza i concetti e sentimenti che nel nostro tempo di abbracci negati rimangono i più puri e sinceri: l’amore, l’erotismo, la ricerca della propria identità.

​Marianna Reggiani

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