Sono state dette tante cose sulla statua di Medusa con la testa di Perseo di fronte alla Corte Suprema di New York. Lo scultore Luciano Garbati ci racconta la sua opera e il processo che l’ha vista diventare simbolo e voce delle vittime di violenza sessuale.
Tu sei italoargentino, quindi hai anche un po’ di Italia in te: come ti ha influenzato, in che occasioni l’hai incontrata?
Luciano Garbati: Mio padre è nato a Carrara, quindi io ho vissuto in Italia da piccolo e lì ho studiato disegno, perciò il mio primo approccio metodico è stato in Italia con il maestro Bertozzi, ricordo ancora il suo nome, avevo sette anni. A Carrara ho imparato a lavorare il marmo. Poi qui in Argentina ho fatto la scuola italiana. Sono andato a Roma per una sorta di master in scultura, e interessi per aspetti specifici della cultura italiana già li avevo, in particolare il manierismo e il barocco. Tranne alcuni artisti contemporanei i miei preferiti sono tutti là.
Infatti la mia domanda nasceva anche dal fatto che il primo modello per la tua Medusa è il Perseo di Cellini, opera manierista.
L.G.: Sì, però devo chiarire: io ho sempre detto che la scultura la avevo in mente, perché è un’icona, ed è uno, forse il più importante, dei modi in cui il mito fu rappresentato nell’arte, insieme alla Medusa di Caravaggio, era impossibile non pensarci. Io ho fatto quello che ho potuto con i miei mezzi, ma non è che mi sia basato sulla scultura del Cellini.. che poi di rappresentazioni del mito ce ne sono un sacco, per esempio in Italia il Canova.


Da cosa nasce l’idea di rappresentare il mito in questo modo? Mentre ci lavoravi pensavi già al messaggio che la statua ha trasportato o è nato dopo, anche grazie all’immagine della statua diventata virale?
L.G.: No, non potevo immaginare quello che sarebbe accaduto dopo. Secondo me quando si lavora ad un’opera non si può semplicemente trasmettere un messaggio, è troppo lineare pensare così. Sì, ci sono alcune cose che uno vuole almeno tentare di trasmettere, ma il passaggio da quello che hai in testa all’opera in sé è un percorso lunghissimo che poi ha delle operazioni di cui non sei nemmeno conscio. E forse lo spettatore riceve qualcosa di diverso dalla tua intenzione originale. Avevo solo in mente la tragedia di una donna che fu stuprata maledetta e esiliata, che quest’uomo voleva uccidere. Io volevo che in quell’immagine fosse presente la tragedia, attraverso i mezzi che hai a disposizione quando rappresenti un corpo, quindi lo sguardo i gesti.. e che fossero presenti le sensazioni degli attimi successivi alla lotta.
Parliamo del dettaglio più affascinante ma anche il più inquietante e disturbante, cioè Perseo con le tue fattezze. Inquietante e disturbante in senso buono, perché l’arte deve anche disturbare a volte.
L.G.: Mi dispiace ma forse la risposta non sarà tanto interessante quanto le tue proiezioni… Quando faccio un corpo ho sempre bisogno di riferimenti. Una modella mi ha aiutato nei particolari del corpo e poi bisognava creare quel volto e il modo più semplice in quel momento era quello di mettere uno specchio là, con la mia faccia. E poi c’è un precedente importante: il Davide con la testa di Golia di Caravaggio, che appunto è un autoritratto. Avevo in mente anche questo dipinto.


Una delle principali critiche è il fatto che tu, scultore uomo, non potevi creare una statua che desse voce a una problematica di cui di solito si pensa possano parlare solo le donne, poiché ne sono le principali vittime, ovvero la problematica degli abusi sessuali. Quindi è stato detto che l’autore sarebbe dovuto essere una donna per portare un messaggio del genere. Cosa ne pensi?
L.G.: Penso sia una discussione assurda. C’è chi dice che l’opera sia stata fatta in funzione del #metoo e questo è assurdo perché è un’opera del 2008 quando il #metoo non esisteva. L’opera è stata accolta da un sacco di gente che ha detto che serviva per parlare di questa problematica, nessuno ha domandato chi l’ha fatta. È stata scelta perché per alcune persone ha acquisito quel valore, ed è un bene che sia così, l’arte nella migliore delle ipotesi assume valori determinati per determinata gente. Non sono stato io a mettere quel significato nell’opera. E poi se vogliamo che le cose cambino, se sentiamo che questa è una società patriarcale, che ha delle conseguenze specifiche che fanno proprio schifo, sarà meglio che intervengano pure gli uomini. Vogliamo cambiare con il solo intervento delle donne? Se non c’è un cambiamento nella mentalità degli uomini non ci sarà possibilità di un cambiamento radicale.
L’immagine è diventata virale anche sui social. A volte anche affiancata da messaggi scritti, ad esempio mi è capitato di vedere la scritta “be thankful we’re seeking equality not revenge” sovrapposta alla statua. Vedere immagini di questo tipo ti provoca qualche disagio?
L.G.: Messaggi come quello non mi disturbano. Forse quando qualcuno dice “allora, cosa volete, andare a tagliare teste?”…quello sì che è esagerato, si sa che non è quello il messaggio. Non si dice delle opere del Cellini, del Canova.. L’atto stesso di rappresentare violenza in un’opera significa che tu di violenza non ne vuoi sapere, stai sublimando la violenza. Nella mia opera c’è altro, non è violenza.
Appurato il fatto che l’opera non ha nulla a che fare con il #metoo ci sono altre cose che ti preme smentire?
L.G.: Si è detto che è stata pagata dal governo, tramite un programma dell’amministrazione dei parchi a NY, il che non è vero. È stata pagata da un mecenate, trovato da Bek Anderson, che ha deciso di sostenere l’opera. Non è stata commissionata da nessuno, io di incarichi nella mia vita ne ho avuti due. L’opera l’ho fatta io, pagando quello che dovevo pagare per farla. Ci sono state poi critiche molto aggressive, come Jerry Saltz, un critico famoso a New York, che è stato lapidario. Poi una donna di cui non ricordo il nome diceva che io ho fatto l’opera per misurarmi col Cellini, e se fosse così io dovrei lasciare la scultura perché non ti puoi misurare col Cellini.

Secondo te queste critiche sono autentiche, oppure sono magari frutto di strumentalizzazioni politiche?
L.G.: Prima voglio chiarire: le critiche sono inerenti al fatto estetico. Tu produci, e nel migliore dei casi puoi ricevere critiche e va bene. Il problema è quando le critiche sono completamente dispersive o partono da falsi presupposti. Alcune secondo me sono frutto di strumentalizzazione, e va bene anche quello ma bisogna saper scegliere cosa ha un senso nei riguardi dell’opera. Se tu vuoi discutere degli approcci al femminismo o di come portare avanti un cambiamento, sono tutte discussioni possibili, ma se ti servi dell’opera per parlare d’altro allora stai strumentalizzando l’opera. E secondo me alcune critiche sono state fatte in quella direzione. Poi c’è anche il fatto che io sono un illustre sconosciuto, che con questa statua ha fatto tanto rumore, e questo per qualche cicerone del mercato d’arte è quasi un insulto. Forse è un po’ esagerato da parte mia, ma se leggi la critica di Sars c’è anche qualcosa del genere.
Come mai proprio quel luogo?
L.G.: Sembra che sia stato fatto apposta per Weinstein, invece non è così. Anche questo mi disturba un po’. Io non lo sapevo nemmeno che lì si sarebbe tenuto il processo. E quando lo sono venuto a sapere eravamo a un mese di differenza con la data originale di inaugurazione dell’opera. Poi è scalato tutto e siamo arrivati fino a ottobre. Il mecenate ci aveva detto di trovare un posto, allora ho cominciato a camminare a Downtown e sono arrivato alla Corte Suprema, e poco dopo c’è il complesso degli edifici giudiziari dello stato, ovvero la Criminal Court, la Family Court e la Civil Court. Circondano questa piazza che si chiama Collect Pond. Sulla Criminal Court c’è una citazione di Jefferson che dice “equal and exact justice to all men of whatever state or persuasion”. Va certamente inserita nel contesto storico in cui parlare di “men” significava parlare dell’umanità tutta. Adesso una frase del genere non sarebbe accettabile, secondo me non lo è: deve essere proprio “men” la parola, non se ne può usare un’altra? Dov’è la donna e tutto il resto dell’umanità? Allora mi sono detto “è questo il luogo”. Perché è lì il patriarcato, sta lì! Tutto il resto, anche Weinstein, è solo un risultato di una società patriarcale.
Quindi al momento dell’installazione era presente il messaggio di giustizia per le donne, anche se non era il messaggio originario?
L.G.: Io non l’ho pensato in quel modo, ma se viene associato a una causa che per me è giusta che devo fare? Io mi sento onorato da questo legame che si è stabilito tra l’opera e almeno parte del femminismo.
Ho ricevuto dei messaggi di donne che fanno venire i brividi. Uno era di una donna che ha partecipato al processo come testimone, che è stata vittima di Weinstein. Ho ricevuto messaggi di donne che sono state violentate e che trovano nell’opera qualcosa che.. non che sani nulla, ma che faccia star meglio, sai. Quello è l’effetto della catarsi, di un’opera che parla di un determinato soggetto che ti fa emozionare e in cui trovi un po’ di salute.
C’è questa frase che io lessi anni fa, “art should confort the disturbed and disturb the comfortable”, ed è forse un po’ quello che è successo anche a queste donne, sulle quali la tua opera ha avuto questo effetto catartico, che è talvolta l’obiettivo dell’arte, certo non sempre, però ci sono opere che lo fanno.
L.G.: Come possibilità senz’altro. E se succede secondo me è magico.

Per chiudere, Medusa cosa direbbe?
L.G.: Io immagino un sospiro molto lungo e quello sguardo che secondo me è la chiave. Torno un po’ indietro: qualcuno ha detto “perché dovrebbe tagliare la testa a Perseo se lo potrebbe pietrificare col solo sguardo?”, quello è un errore grosso. Non è che lei abbia il potere di pietrificare chi guarda, quella è una maledizione non un potere. Significa che nessuno vorrà mai guardarti negli occhi, è una solitudine inimmaginabile, un destino orribile. Tutto questo per dire che avrebbe ora la possibilità di tornare a guardare negli occhi chiunque. E forse immagino qualche lacrima, pure. Il silenzio in questi casi è molto più eloquente delle parole.
Marianna Reggiani