Una pietra sopra: questo il titolo della nuova mostra di Giulia Marchi, artista riminese classe 1976, inaugurata alla galleria Matèria a Roma il 19 febbraio e visitabile fino al 7 maggio. Si tratta della seconda personale dell’artista in questo spazio espositivo, ed è accompagnata da un testo critico dello storico della letteratura Andrea Cortellessa. Tra spinta archivistica e desiderio di sovvertire, la mostra si presenta come una riflessione sui soggetti e le pratiche che hanno caratterizzato l’evoluzione del percorso artistico di Marchi, ribaltandone il senso attraverso l’esplorazione di nuovi punti di vista. Conversiamo con l’artista riguardo ad alcune di queste chiavi di lettura, e agli aspetti più interessanti della sua parabola artistica.
DIONISIA MATACCHIONE: in tutti i tuoi lavori è presente un profondo legame con le forme espressive della narrazione, attraverso il quale si percepisce la tua solida formazione umanistica. Quali sono le voci letterarie che hanno avuto il maggior impatto sulla tua ricerca artistica? Ritieni che alcune di queste influenze siano fonti d’ispirazione costante per te, o preferisci cercare connessioni di volta in volta differenti con la letteratura, durante il processo preparatorio di ogni singolo progetto?
GIULIA MARCHI: la letteratura, o più precisamente la lettura, scandisce il ritmo del mio lavoro. Procedo spesso grazie alle parole di illustri “altri” nei quali riconosco i miei intenti e grazie ai quali rafforzo e consolido i miei pensieri. Sono compagni di viaggio che prima o poi mi abbandonano obbligandomi ad assumermi le responsabilità del mio lavoro, e così facendo mi permettono di appropriarmi della strada fatta. Non è mai un addio naturalmente. Non posso citare nessuno, troppo rischioso; potrebbero scegliere di non accompagnarmi ancora.

DIONISIA MATACCHIONE: nel tuo progetto Multiforms, ispirato all’opera di Rothko, rifletti sul rapporto tra colore e materia, spostando il focus dall’astrazione della tela alla fisicità dei materiali, come lana o sabbia, sottolineandola col mezzo fotografico. Come ritieni di influenzare la percezione dell’immagine da parte dello spettatore, evidenziando questa dimensione concreta, tattile, dei soggetti fotografati?
GIULIA MARCHI: nessuna intenzione da parte mia di influenzare alcuno. Io lavoro per me, per fare chiarezza e per comprendere. Le grandi tele di Rothko, soprattutto quelle dell’ultimo periodo, mi hanno obbligata a interrogarmi sulla fisicità dell’approccio artistico. La loro presenza imponente ha messo fortemente in discussione l’apparato mentale del mio lavoro, e ho tentato di rispondermi indagando la loro dimensione. Lo spazio che i materiali occupano nelle mie fotografie diventa tattile, le distanze si annullano, e la fotografia stessa in questa circostanza diventa dialettica, sfida il colore cercando un luogo in cui incarnarsi.

DIONISIA MATACCHIONE: un dettaglio affascinante che si ritrova nella tua opera è l’attenzione particolare riservata al libro d’artista. Utilizzi questa forma espressiva come tramite ideale per conciliare i tuoi diversi interessi, letterari, filosofici e artistici? O te ne servi come mezzo di conflitto, per scardinare le funzioni tradizionali sia del libro che dell’opera d’arte?
GIULIA MARCHI: i libri d’artista nel mio lavoro non sono solo un dettaglio o un’appendice, ma sono assolutamente il luogo del mio lavoro. Parlo di luogo citando Tommaso Trini: «I libri d’artista non sono libri, sono luoghi delle idee prima ancora che delle parole, sono luoghi d’elezione che sfuggono sapientemente alle regole, ambigui per scelta e instabili per natura». Il luogo del libro è per me una trasposizione del concetto di spazio, che indago nel mio lavoro da diversi anni. Delimito lo spazio utilizzando un foglio, lo invado aggiungendo delle parole e infine me ne approprio, rinchiudendo i pochi o gli innumerevoli fogli in un contenitore che si fa scrigno e difende la partenza della visione.

DIONISIA MATACCHIONE: nel tuo lavoro Memorie selettive indaghi la relazione tra fantasia, desiderio e ricordo, evidenziando come la memoria dell’individuo, lungi dall’essere attendibile, sia in realtà costituita da un intreccio di questi tre elementi. È presente una forte componente autobiografica nelle immagini che hai scelto per comunicare questo concetto. Ritieni che esporre la tua individualità e l’intimità dei tuoi ricordi privati sia un modo per guidare l’esperienza del pubblico in una precisa direzione? O che sia al contrario uno stimolo utile allo spettatore per costruire la propria narrazione soggettiva?
GIULIA MARCHI: come ho già detto il mio lavoro ha prerogative che non coinvolgono il fruitore. Quanto accade a chi osserva non è cosa mia, io mi limito alla sincerità, mi impongo onestà e facendo questo la lettura del mio lavoro è aperta e incondizionata. Memorie selettive non racconta nulla di me, i ricordi ai quali faccio riferimento sono in realtà quelli perduti, dimenticati, ma per citare Vincenzo Agnetti, quelli “dimenticati a memoria”. Non esiste infatti alcun tipo di azione che possa eludere totalmente la memoria.

DIONISIA MATACCHIONE: la tua nuova personale Una pietra sopra, che è stata inaugurata il 19 febbraio, si presenta come un archivio della tua ricerca artistica, e dei materiali che hanno costituito e costituiscono i tuoi soggetti d’indagine, esposti nella loro fisicità, senza mediazioni espressive di sorta. Qual è il tuo approccio allo spazio espositivo in un’operazione di questo tipo?
GIULIA MARCHI: la mostra parte dallo studio dello spazio. I materiali lo occupano, modificandolo, e soprattutto modificano la percezione che noi abbiamo dello spazio che stiamo osservando. Una pietra sopra sovverte il linguaggio, ribaltando la prospettiva del mio lavoro. Penso a questa mostra come a una riscrittura; i materiali esposti sono citazioni di progetti precedenti, sono il mio archivio di pensieri, sono pensieri che prendono forma.

DIONISIA MATACCHIONE: nella tua intera parabola artistica si percepisce un’attenzione maniacale al procedimento e alla ricerca preparatoria, che acquisiscono a mio parere un’importanza pari, se non superiore, all’opera d’arte compiuta. All’interno di questo metodo di lavoro estremamente minuzioso, c’è spazio per la manifestazione dell’inconscio? E qual è in generale il tuo rapporto con gli elementi irrazionali dell’elucubrazione artistica?
GIULIA MARCHI: lo studio e la dedizione alla ricerca sono fondamentali al mio procedere nel lavoro. La mia formazione mi ricorda costantemente quanto tutto debba essere supportato da una motivazione, da una spiegazione, e questo mi impone un andamento quasi scientifico. Mi propongo di non lasciare nulla al caso e tengo sempre a mente Pasteur: «Il caso sceglie sempre colui che si è preparato».
Dionisia Matacchione