C’è da ridere. A veder scivolare tra gli episodi della black comedy che porta il suo nome questa trentenne catastrofica che si fa chiamare “sacco di pulci”, c’è parecchio da ridere. Fleabag vive a Londra, gestisce un bar a tema porcellini d’India e ha una relazione intermittente con il fidanzato storico, Harry, emotivamente fragile e sbigottito dalla sua passione per l’autoerotismo. La madre è morta da anni, il padre sta per risposarsi con una detestabile amica di famiglia e la sorella, sulla carta un’impeccabile donna di successo, è una maniaca del controllo con un matrimonio allo sfascio. Come se ciò non bastasse, la sua migliore amica e co-proprietaria del bar si è involontariamente suicidata nel tentativo di attirare l’attenzione dell’uomo che l’ha tradita e Fleabag ha reagito portando l’attività sull’orlo del fallimento.

Nel corso della vicenda, mentre i rapporti disfunzionali della sua vita ci sfilano davanti – prima fra tutti la storia d’amore con il prete che deve celebrare le seconde nozze del padre – Fleabag ci aggancia continuamente con lo sguardo, ammicca, ci trascina nelle sue gaffe, si volta verso la telecamera e ci invita a seguirla. Sin dal primo episodio ci troviamo ad essere i suoi confidenti esclusivi, gli unici in grado di comprendere la sua insofferenza ogni volta che qualcuno tenta di costringere la mobilità inesauribile della sua vita nella fissità delle convenzioni.

La quarta parete si sgretola in fretta sotto i colpi di questo dialogo incessante. Ben presto comprendiamo che il vero spettacolo consiste nel rimuginare di Fleabag intorno alla propria ferita: avere trent’anni e non sapere dove andare a sbattere la testa, naufragare nel sesso per scrollarsi di dosso la solitudine, restare delusa dagli affetti che non si schiudono e la lasciano in sospeso, senza abbracci, tutt’al più con un’occhiata di compatimento alle spalle. Sempre in agguato, la depressione è tenuta appena a bada da una verbosità che si arrotola su sé stessa e talvolta si inceppa in una confessione fugace – «I just wanna cry all the time»[1] – subito mitigata dalle rassicurazioni che la protagonista dà a coloro che la circondano. Sta bene, sta sempre bene, non c’è da preoccuparsi. Non vedono com’è autoironica, a suo agio, divertente?

Le contraddizioni tra cui la osserviamo oscillare, d’altronde, non possono sorprendere: sono quelle inevitabili del monologo interiore, dell’“Io” che si frange in mille pezzi nel tentativo di trovarsi, indugiando con radicale sincerità intorno al «terribile sospetto di essere un’avida, pervertita, egoista, apatica, cinica, depravata donna moralmente distrutta che non merita di essere chiamata femminista»[2]. Suo luogo d’elezione, non a caso, è il palcoscenico. Prima di approdare nel 2016 su Bbc Three e poi su Amazon, infatti, Fleabag esordisce come opera teatrale, acclamata da critica e pubblico sin dal debutto all’Edinburgh Festival Fringe del 2013.
Phoebe Waller-Bridge, creatrice e interprete dello spettacolo, mette in scena qualcosa che somiglia molto da vicino alla vita (non necessariamente la sua, ma spesso la nostra). A sottolineare l’intento archetipico del personaggio, l’autrice non si prende nemmeno il disturbo di attribuirgli un nome proprio: è solo Fleabag, un sacco di pulci, “me”. Il risultato è che anche quando il buon senso ci suggerirebbe di distaccarci dalla raffica dei suoi piccoli, mastodontici drammi quotidiani, ci è impossibile respingerne la familiarità.

Dov’è, allora, che la Waller-Bridge ci colpisce? Come riesce a farci indossare così abilmente i suoi panni nonostante gli errori clamorosi e una moralità altalenante?
La risposta ci arriva da qualcuno che di teatro un po’ se ne intendeva, confezionata nel saggio di Luigi Pirandello del 1908 che, più di tutti, riassume la sua poetica: L’umorismo. Il sottile filo rosso che unisce due mondi tanto diversi – lo spettacolo buffo della commediografa britannica e la riflessione letteraria e psicologica del Pirandello di inizio secolo – è la necessità di sciogliere le contraddizioni di una modernità sempre più complessa e ripiegata sull’individuo in una fragorosa risata che schianti le tensioni, si scrolli di dosso gli schemi e ci consenta un respiro. Risata brevissima, sia chiaro, subito estinta dal “demonietto” della riflessione che scompone l’immagine comica nel suo opposto, mostrandoci il risvolto amaro e innescando in noi un’insopprimibile simpatia umana per le debolezze altrui, ossia le nostre.

«Fuori di chiave» e incapace di indossare la maschera, Fleabag ci si presenta molteplice e nuda: non oggetto finzionale, non mediatrice tra pubblico e testo, ma personaggio vivo, quindi inevitabilmente portatore di contrasti. Come la farfalla che rimane chiusa in casa per errore, anche lei va a sbattere a più riprese contro il vetro della finestra chiusa. Sbaglia strada, si ammacca, è uno spettacolo tragicomico, ma il suo intento è chiarissimo: vuole vivere in libertà.
Ebbene, se la riflessione intorno all’umorismo è stata la risposta degli intellettuali del Ventesimo secolo al tentativo di incasellare l’esperienza o di dissolverla nell’irrazionalismo, Fleabag raccoglie il testimone e dimostra che riformulare un linguaggio per rappresentare la fatica di orientarsi in un mondo che ci vorrebbe sempre più performanti ed emotivamente disinnescati, quindi dissacrare quel mondo, è un bisogno quanto mai urgente. Da brava umorista, Fleabag sfugge alle categorie morali. La sua risata dolceamara la catapulta fuori dal grigiore del conformismo; la sua intelligenza di donna le suggerisce che in questa vita si può avere di meglio.
Elena Panzera