Doris Salcedo. Un’arte politica e di condivisione tra dolore e ricordo

Doris Salcedo (2015), courtesy of David Heald 

Nata a Bogotà nel 1958, Doris Salcedo con la sua arte sa stupire e colpire il pubblico di tutto il mondo, da Londra a Istanbul, da Roma a New York.
Per Salcedo l’arte è un atto politico: «Ogni opera d’arte apre nuovi orizzonti e si oppone allo status quo quindi ogni opera e la natura stessa dell’arte è politica» (Tateshots, 1 ottobre 2007). Per questo motivo l’artista si dedica a questioni del contemporaneo, in particolare legate al potente ma complesso legame con la sua patria, la Colombia. I temi che caratterizzano il suo lavoro sono la memoria e il ricordo ma anche il dolore e il trauma di una perdita, aspetti legati alla sua storia personale in quanto membri della sua famiglia sono tra i molti desaparecidos colombiani. Molti suoi progetti danno quindi  forma al dolore e creano uno spazio collettivo e individuale per il lutto.

Esempio eclatante è Acción de Duelo, performance site-specific realizzata il 3 luglio 2007 a Bogotà in Plaza de Bolívar. In piazza, collocata al centro della città e circondata dagli edifici politicamente più rilevanti, vennero poste oltre ventimila candele che furono accese dall’artista stessa e dai passanti. L’azione rappresentò un omaggio alle vittime di violenza in Colombia e lo spazio e l’atmosfera generati furono per gli abitanti un invito al ricordo e alla riflessione. Maria Carrasquilla, una partecipante, ricorda così l’installazione:

«Era un invito ad uscire dalla nostra routine, dal nostro habitat, dalle nostre teste, dalla nostra comfort zone. Era un invito a smettere di sentirci impotenti o occupati a fare e pensare ad altro per fare finalmente qualcosa alla nostra portata mostrando supporto, disprezzo e tristezza» (Blog MCA DNA, 26 febbraio 2015)

Doris Salcedo, Acción de Duelo, installazione-azione, Plaza de Bolívar, Bogotà, 3 luglio 2007, courtesy of Sergio Clavijo
Doris Salcedo, Acción de Duelo, installazione-azione, Plaza de Bolívar, Bogotà, 3 luglio 2007, courtesy of Juan Fernando Castro

Per le sue opere, tra sculture e installazioni, Salcedo utilizza oggetti di uso quotidiano che proprio nella pratica di tutti i giorni si sono caricati di significato. L’artista crea qualcosa di nuovo permettendo il raggiungimento della metamorfosi dell’oggetto. Infine lo spettatore, per mezzo di una contemplazione silenziosa, permette alla vita che pervade l’oggetto di riaffiorare: la scultura illustra così il flusso del tempo congiungendo presente e passato.

Nel 2003 ad Istanbul, Salcedo chiuse una strada tra due palazzi accatastando oltre 1500 vecchie sedie di legno. L’installazione è pregna di forti significati simbolici; in particolare, spiega l’artista, vuole creare una «topografia della guerra […] rappresentare la guerra in generale e non come evento storico specifico» (Art21 interview, 23 luglio 2010). L’accento viene infatti posto sul significato intrinseco delle sedie: qualcosa che è comune a tutti noi, la quotidianità, arrivare a casa e sedersi su una sedia per mangiare, bere, stare insieme.

Doris Salcedo, Untitled, 2003, sedie di legno, installazione, 8th International Istanbul Biennial, courtesy of MCA Chicago

Nel 2007 Salcedo decise invece di interrompere la quotidianità dei visitatori della Tate Modern di Londra generando un profondo solco lungo il pavimento della Turbine Hall. Shibboleth, però, non è soltanto una crepa e lo si intuisce già dal titolo. In un episodio biblico il termine acquista la funzione di segno distintivo con cui riconoscere gli “altri” così da avere su di loro il potere di giudicare, rifiutare o uccidere. L’obiettivo è dunque introdurre una nuova prospettiva: quella dei vinti e in particolare degli immigrati. «La presenza degli immigrati è sempre sgradita […] volevo creare un’opera che si intrufolasse nello spazio, che fosse sgradita come un immigrante che si intrufola senza permesso» (Tateshots, 1 ottobre 2007).

Doris Salcedo, Shibboleth, 2007, cemento e acciaio, installazione, Tate Modern Turbine Hall, Londra, courtesy of Stephen White

L’opera dunque modifica fisicamente l’edificio, creando una profonda ferita che durerà per sempre: nel 2008, un anno dopo la creazione, la frattura è stata infatti chiusa generando però una cicatrice permanente. In questo modo rimarrà «come un ricordo, una commemorazione di queste vite che non vengono riconosciute» (Tateshots, 1 ottobre 2007). Ciò che resta dell’opera, dunque, acquista lo stesso carattere della presenza di queste persone: solo un vago ricordo.

La “cicatrice” della Turbine Hall dopo la chiusura di Shibboleth, 2008, Tate Modern, Londra, courtesy of Sergio Clavijo

Eleonora Caucino

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