Il campo di battaglia è di nuovo vicino – e dentro di noi. Ce lo rammenta l’opera di Kӓthe Kollwitz.

La maggior parte, se non ogni persona che leggerà questo articolo, compresa la sua scrittrice, possiede l’immenso e probabilmente sottovalutato privilegio di aver sempre esperito la guerra attraverso i numeri e le immagini. Siamo statә educatә alla realtà dei conflitti bellici tramite innumerevoli reportage, documentari e fogli di giornale sgranati, ma anche, naturalmente, attraverso la potenza di opere d’arte come gli enormi e in questo senso terribili affreschi di Palazzo Vecchio a Firenze, passando per la più cangiante e speranzosa Libertà che guida il popolo di Delacroix. Sovente quest’empatia si fa voyeurismo, come in certi film drammatici contemporanei. Altre volte la distanza è più sottile, diveniamo il Piero di De André per qualche minuto; ma più spesso la sensazione è quella di una comprensione ferraginosa, o di un cauto distacco brechtiano. Le immagini che vediamo oggi appaiono però meno distanti. Vorremmo non lo fossero.
Una vicinanza forse accentuata da un’iconografia che spesso volge il suo obiettivo non tanto al conflitto in sé, quanto agli sguardi dei bambini, o di una famiglia dentro a un bunker o già in fuga. Abbiamo visto le donne incinte e quelle che salutavano i mariti prima di partire, spesso in un protrarsi tutto occidentale verso una rappresentazione del dolore altrui morbosa e confondente. Di queste raffigurazioni resta comunque un’angoscia cadenzata dall’attesa di chi è da sempre naturalmente lontana o allontanata dal conflitto, marginale e al contempo ricevente delle sue conseguenze più intrinseche. La donna, che sia iscritta o meno nei ruoli sociali di moglie e madre, spesso si ritrova a vivere un conflitto nel conflitto, interiorizzato nella sua distanza, solenne.
Un distacco straniante e atroce al tempo stesso, che mi ha riportato alla mente le emblematiche serie di incisioni dell’artista tedesca Kӓthe Kollwitz, nota per la rappresentazione del tema bellico nei suoi particolari più intimi e familiari, e soprattutto sulle conseguenze, sui risvolti marginali, sul silente dolore femminile.

Nata nel 1867 a Konigsberg, ebbe la sfortuna di attraversare entrambi i conflitti mondiali e di viverne i drammi sulla propria pelle. Ancor prima che l’Europa cominciasse a tingersi di sangue infatti aveva prodotto opere sulla guerra, o per meglio dire, sulle sue conseguenze psicologiche e sociali. Sin dall’infanzia era avvezza a ritrarre volti di operai, e soprattutto di operaie: perché si mostravano, a detta sua, non regimentate da pudori mondani. Lasciavano intravedere le loro forme, i loro volti stanchi, le loro mani consumate. La donna lavoratrice diviene in seguito protagonista inusuale di una sua serie di incisioni dei primi anni del ‘900. Il tema è la rivolta dei contadini del sud della Germania risalente al 1525. La vicenda è stata ampiamente trattata nell’arte e nella letteratura tedesche, venendo rappresentata anche in vari drammi, in special modo nel Florian Geyer del 1896 e poi nel Rose Bernd del 1903, entrambi ad opera di Gerhart Hauptmann. Quest’ultimo lavoro in particolare si focalizzava su un fatto realmente accaduto all’interno della rivolta, ossia lo stupro di una contadina e sul crescendo di disperazione che la porterà al gesto folle di uccidere suo figlio. La Kollwitz traspone questa vicenda nella serie di incisioni che produrrà tra il 1903 e il 1908 e ne fa il fattore scatenante della rivolta, qui guidata dalla madre della contadina stuprata. Particolare in questo senso è proprio Battere la falce, in cui vediamo proprio la madre apprestarsi a guidare la rivolta, in un ritratto cupo ed eloquente.

La figura materna resterà sempre centrale in tutta l’opera di Kӓthe Kollwitz. La madre disperata, immobilizzata nell’attesa del ritorno della prole al nido; annullata e impotente di fronte alla follia della guerra. Una madre che cerca suo figlio tra i corpi ancora tiepidi di soldati caduti e feriti, illuminandone i volti con una lanterna ad olio, è la protagonista di Campo di battaglia, incisione che fa riferimento ancora una volta alle Peasants’ wars del sedicesimo secolo.

Il dolore materno delle sue opere ad un certo punto si tramuta in una triste profezia: suo figlio Peter muore in battaglia nel 1914, appena diciottenne. Era da poco iniziato il primo conflitto mondiale.
Si rafforza in lei un attivismo pacifista e filosocialista. Nel 1932 firma con suo marito una petizione per l’unione del Partito Socialista col Partito Comunista, per fronteggiare l’ascesa di Hitler in Germania. Era allora insegnante alla Akademie der Kunste di Berlino, prima donna a ricoprirvi il ruolo di docente. Ruolo che le sarà strappato, in quanto oppositrice politica, poco tempo dopo. La sua famiglia si disgrega sotto i bombardamenti, e lei, ormai sola, fugge da una casa all’altra, ospitata da amici e ammiratori della sua opera, continuando a lavorare. Negli ultimi anni realizza una sua Pietà; una pietà priva di pathos, laica. Una madre esausta, quasi arrabbiata, il corpo del figlio inerme sulle ginocchia.

Kӓthe Kollwitz morì qualche anno dopo, due settimane prima della resa tedesca, nell’aprile del 1945.
Di lei ci rimangono centinaia di opere, sculture, acqueforti, litografie. Volti scarni scolpiti dal suo stesso dolore, un lascito immenso che ora risuona come un tacito monito al mondo. Mai più questo.
Aurora Angeloni