L’arte per un popolo: Małgorzata Mirga-Tas e il Padiglione Polonia della Biennale 2022
Si è più volte parlato della 59ª edizione dell’Esposizione internazionale d’Arte a cura di Cecilia Alemani come la “Biennale delle donne”, vista la cospicua presenza di artiste nei vari padiglioni, divisi tra le sedi di Giardini e Arsenale. Questa apostrofazione, più volte rigettata dalla stessa curatrice, rivela sicuramente un dato di fatto, ma anche una percezione un po’ miope di ciò di cui si compone il progetto espositivo della Alemani. Se da una parte emerge prepotentemente la componente emotiva delle opere selezionate per questa Biennale, che rivendicano un’autonomia spiccata rispetto alle aspettative del pubblico dando vita a scenari pregni di dismorfismo, dall’altra denunciano la complessità delle problematiche sociali attuali.

Il concetto che prende vita nel padiglione Polonia, curato da Joanna Warsza, e Wojtek Szymanski ricalca questa cifra, proponendo una moltitudine di scene e simboli che si dispiega su tutte le pareti dell’ambiente. Małgorzata Mirga-Tas ripensa e vivifica la tradizione rinascimentale e barocca che voleva come protagonisti degli ambienti affrescati segni zodiacali e cicli del tempo, attualizzandoli all’interno della cultura rom–polacca nella quale si identifica l’artista. Il riferimento culturale facilmente percepibile è Palazzo Schifanoia, termine di paragone e metafora formale da cui attingere, del quale si riproduce l’organizzazione bustrofedica delle scene e la saturazione accesa dei colori che adornano le scene.
L’omaggio alla cultura italiana non offusca però le intenzioni celebrative della dimensione domestica rom–polacca che traspare chiaramente, il cui accento è posto non solo sulla pratica lavorativa quotidiana della comunità, ma soprattutto sul nomadismo e ciò che comporta. Si mette in scena nel Padiglione Polonia la tematica del viaggio inteso come migrazione, non solo come perdita ma anche come arricchimento; dall’analisi dell’opera emerge la moltitudine di riferimenti culturali condivisi dalla comunità con quelle in cui si potrebbe riconoscere lo spettatore, comunicando quanto il filo che lega gli esseri umani tra loro non sia poi così sottile. Risulta pienamente riuscito il tentativo di sovvertire la retorica xenofoba e razzista che ha alimentato per tanto tempo il pregiudizio sulla comunità rom, in particolare con il riferimento a Le Bohèmiens on marches, incisioni seicentesche di Jacques Callot che presentavano la minoranza come da isolare e perseguitare perché pericolosa.

Non è errato parlare di trame quando ci si riferisce all’opera di Mirga-Tas, dato che l’artista ricorre all’utilizzo del materiale tessile per rappresentare la moltitudine di forme e colori della sua minoranza. La scelta di questa narrazione ricalca l’arazzo con il patchwork, rinnovando il riferimento all’antico e rievocando le attività praticate dalle donne della comunità, in questo caso sue congiunte o una dei curatori del Padiglione, spesso rappresentate all’interno delle scene come intente a filare gli indumenti che indossano quotidianamente. L’utilizzo del tessuto come medium è fulcro della carriera artstica di Mirga-Tas, che indubbiamente si rifà ad artisti come Joanna Vasconcelos, la quale si riconnette alla dimensione femminile mediante l’assemblaggio delle sue opere tramite tecniche tipiche del cucito.

Ciò che difetta nel variopinto romanzo etnico che si apprezza in questo edificio è la magniloquenza tipica dei cicli celebrativi che Mirga-Tas vuole omaggiare, ma è proprio da questa mancanza che si comprende il senso più intimo dell’opera, la quale tenta di connettere il visitatore con i valori intrinsechi di quel popolo, producendone una rappresentazione positiva ed emotivamente coinvolgente. La ricca componente decorativa, l’uso del tessile e i colori tipici delle vesti dei rom–polacchi coadiuvano l’intento artistico di predisporre all’accoglienza, tramite una simbologia culturale condivisa e costruita su un substrato comune, fatto di arricchimento reciproco.
Maria Giuseppa De Filippo