Tra i virgulti artistici più interessanti del panorama artistico attuale c’è Federica di Pietrantonio, romana di nascita, ma cosmopolita d’adozione, in quanto da sempre impegnata in progetti variamente dislocati. Collaboratrice attiva e prolifica di SpazioinSitu, contribuisce all’attenzione crescente del pubblico e della critica sugli spazi indipendenti romani, che attualmente costituiscono nella capitale una fucina di nuovi talenti. La sua produzione proietta lo spettatore nel behind the scene delle realtà virtuali con le quali si interfaccia ogni giorno ed esamina il labile confine che separa l’immaginario dal concreto, insistendo sul concetto stesso di esistenza all’interno dell’esistenza fenomenica dell’umano del XXI secolo. Spaziando dai videogiochi alle piattaforme social, ci invita a perderci in una dimensione onirica di creazione umana ma che allo stesso tempo trascende dai concetti di tempo e spazio.

M. De Filippo: Nella tua attività artistica esplori l’interconnessione tra la realtà videoludica e quella effettiva. In un tempo in cui il nostro vissuto è fortemente limitato dalle circostanze politiche, sociali e sanitarie, è quella virtuale l’unica realtà in cui l’individuo è secondo te realmente libero di vivere secondo la sua propria natura e privo di condizionamenti?
F. Di Pietrantonio: Credo che la realtà videoludica possa essere un’estensione della realtà effettiva, sia in termini di spazio che di tempo, e che una non possa escludere l’altra. Per me il videogioco è un modo, come il disegno, di immaginare nuove o eventuali possibilità, un ambiente di test dove le leggi possono essere messe in discussione.
La traduzione virtuale di un contesto reale, o l’integrazione virtuale di una esperienza reale non è in vista di una scelta esclusiva, ma anzi rappresenta per me la necessità di trovare una strumentazione adatta a poter comprendere meglio il tempo, nella sua accezione di memoria o di evoluzione e sviluppo. Accade anche spesso che per meglio comprendere un’esperienza virtuale si necessiti di uno scontro.
Credo che lo spazio virtuale possa essere al momento un luogo che, i nuovi utenti legati al consumo mainstream dell’intrattenimento virtuale, vivono come un ecosistema ancora da scoprire, capire con che modalità interagire e come essere consapevolmente partecipi delle società esistenti. Per questo motivo un luogo privo di condizionamenti rimane fisicamente (irl + url) inaccessibile.
De Filippo: Emerge nei tuoi lavori la volontà di mettere in relazione pubblico e realtà virtuale, personificate negli avatar. Questa relazione include quindi una dimensione comunicativa tra l’umano e la dimensione simulata nel gioco. Qual è secondo te il discrimine che è in grado di abbattere questa barriera immaginaria, non solo linguistica ma anche materiale, in cosa risiede l’universalità del virtuale?
F. Di Pietrantonio: Un concetto fondamentale in questo discorso è il ruolo che assumono le comunità online, nativamente e non commercialmente intese. Gli spazi virtuali sono popolati da utenti, che potremmo definire abitanti, in un’accezione più intima, o cittadini, in un’accezione pubblica e sociale. Il modo in cui le comunità si generano, sopravvivono, e si diffondono funziona come un sistema alternativo di informazione, che ha in passato, e tuttora, generato e preservato nuovi pensieri, abitudini, economie, manifesti (vedi The Wastelands, Second Life).
In questo ragionamento perde senso l’idea di barriera, anche se immaginaria. Tuttavia, abitudini linguistiche ormai consolidate generano confusione tra i termini realtà e immaginazione, come tra reale e virtuale. È forse a causa dell’estremo fascino e dell’impossibilità di fuggire che attribuiamo alla virtualità, infine, il grado di immaginazione.
De Filippo: Parliamo di influenze. È chiara la diretta connessione della tua attività alla stringente attualità e al confronto costante con la nostra concezione di coscienza e dei rapporti umani. Se ci sono stati, quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente spinto ad indagare questi temi in questa specifica modalità?
F. Di Pietrantonio: Ultimamente accolgo e ricerco molte influenze dall’ambito musicale, sia per l’immaginario estetico proposto sia per la qualità della narrazione, non posso non citare only fire. Mi sento molto vicina al suo lavoro, alla condizione di inquietante rassicurazione e straniamento nei suoi testi, suoni e nella costruzione dell’identità digitale a partire da voci sintetiche.
“POV: you’re in an empty room with” Hatsune Miku (vocaloid), AnnLee (Pierre Huyghe e Philippe Parreno), Xanax Girl (Jon Rafman), lilmiquela, gli orchi di Theo Triantafyllidis.

De Filippo: Se penso allo sviluppo della grafica e della narrazione videoludica degli ultimi anni, percepisco una grande attenzione degli autori alla realizzazione di prodotti che non obbediscano più ad esigenze puramente commerciali, ma che si impongano anche come prodotti artistici finiti e canonicamente intesi, sia dal punto di vista estetico che tematico (es. The Last of us 2 ma anche Sekiro). Alla luce della tua esperienza con questa realtà anche dal punto di vista creativo, ritieni che l’industria del gamig riuscirà ad acquisire una maturità artistica più consapevole, dando maggiore spazio agli autori e meno alle logiche del mercato oppure un’esperienza più simile a quell’artistica può essere sviluppata solo nel mondo indipendente?
F. Di Pietrantonio: Credo che siano due modalità con punti di contatto ma anche di diversa natura. Un videogioco prodotto in quanto opera d’arte può essere esperito come tale, con le modalità studiate e scritte per essere offerte dallo stesso. In questo modo l’intrattenimento slitta verso il panorama più ampio dell’offrire un’esperienza, modellata con le intenzioni del team di sviluppo e quindi confinata all’interno di uno spazio già fortemente (anche se non necessariamente esteticamente) strutturato come pensiero.
Nel mondo dell’intrattenimento mainstream sono impaziente. Spesso il mio atteggiamento è quello di pormi come uno spaesato visitatore, un casuale ma metodico ricercatore, preservando (a volte) la timidezza che gli ambienti virtuali, a causa della loro permanente esposizione al pubblico di massa, inducono.
De Filippo: In opere come “Lost in myst” e “You had me at hello” impieghi videogiochi come GTA V, Myst ma anche The Sims. In un certo senso, questi prodotti videoludici rappresentano quelli più celebri tra noi Millennials, in quanto sono stati rilasciati durante la nostra infanzia e adolescenza, ottenendo un enorme successo commerciale. Oltre al chiaro intento di restituire allo spettatore una dimensione esperienziale alla quale questi giochi si prestano in modo ottimale, la scelta del loro utilizzo è determinato dal fatto che sono parte di un immaginario comune generazionale? Il videogioco e quindi l’esperienza e la realtà ad esso connesse, fungono da linguaggio democratico di massa?
F. Di Pietrantonio: Utilizzare videogiochi appartenuti alla mia infanzia o adolescenza sicuramente genera un incontro sia con i miei ricordi che con il mio attuale sguardo o attitudine. Il modo di giocare ha subito dei cambiamenti. Quella membrana elastica che separa lo sguardo del consumatore dallo sguardo del produttore, in termini di attività e passività delle intenzioni. Ed a volte la nostalgia, che cercando l’origine della luna diventa melancholia, non è una scelta calibrata ma un’inevitabile conseguenza.

Maria Giuseppa De Filippo