Perseguitata dalla Gestapo, Charlotte Salomon si è rifugiata nell’arte fino alla fine. Il risultato è il suo capolavoro “Vita? O teatro?”, conservato al Jewish Historical Museum di Amsterdam.
Ti prego di non dimenticare che amo la vita e lo ribadisco tre volte.
Sono le parole d’addio che la pittrice ebrea Charlotte Salomon scrive nel suo diario, dedicandole al suo primo amore Alfred Wolfsohn prima di fuggire dalla Berlino nazista per rifugiarsi in Costa Azzurra. Ed era vero, Charlotte amava la vita. La amava così tanto da riuscire a fare della pittura e della poesia le armi con cui contrastare il suo destino ingiusto e la sua vita fatta di fughe.


La storia di Charlotte Salomon è, da un lato, la stessa di 15 milioni di persone, tutte brutalmente stroncate dalla Shoah. Dall’altro, però, quella forza vitale così prepotente e testarda che scalpitava dentro di lei ci rende difficile credere che sia davvero morta a 26 anni nel campo di sterminio di Aushwitz.
Tutta la sua produzione artistica è raccolta nel suo diario, intitolato Vita? O teatro?: si tratta di un Singespiel, un poema costituito da dialoghi teatrali, intersezioni letterarie e indicazioni musicali, raffigurato da disegni a tempera e conservato oggi presso il Jewish Historical Museum di Amsterdam. Charlotte inizia a lavorarci per necessità, per trovare uno spiraglio di luce mentre tutto intorno a lei sta cadendo in frantumi, e il Dottor Mordis, caro amico della famiglia Salomon, le consiglia di buttarsi a capofitto nella sua vera vocazione: l’arte. Un anno prima di morire, Charlotte consegnerà proprio a lui i pacchi contenenti i fogli che compongono il suo diario.
Li tenga con cura, – gli dirà – è tutta la mia vita.
(Elisabetta Rasy, Le disobbedienti, 2019).
Le 820 pagine raccontano gli episodi e le memorie dell’artista: l’infanzia segnata dalla morte della madre Franzisca – il cui suicidio le verrà a lungo nascosto -, l’incontro con la cantante contralto Paula Levi, nuova moglie del padre Albert, l’inquietante sfilata nazista per le strade di Berlino, la liberazione di suo padre dal campo di concentramento di Sachsenhausen. Ci sono poi i ricordi legati alla sua esperienza come unica allieva ebrea dell’Accademia delle Belle Arti, dove la sua ammissione fu considerata da esponenti nazisti un pericolo per l’integrità sessuale dei maschi ariani. Ritrae poi Il suo primo amore Albert Wolfsohn e i suoi nonni in Costa Azzurra.



Infine, la grande rivelazione: quando nel 1940 sua nonna si toglie la vita, devastata dalle notizie della guerra, il nonno perde il senno, scaraventando tutto il suo dolore sulla nipote. Le rivela che sua madre Franzisca non è morta di influenza, ma si è precipitata da una finestra, tormentata dal ricordo di una sua sorella che a diciotto anni si è gettata da un ponte, alla quale non ha mai smesso di pensare. Il nome di questa zia che Charlotte non ha mai conosciuto, era proprio questo: Charlotte. La giovane artista scopre quindi che la sua famiglia è macchiata da una scia di suicidi e che lei, di fatto, porta il nome di un fantasma che ha portato sua madre nella tomba. Questi pensieri scaraventano Salomon in un buco nero fatto di istinti suicidi. Per resistervi, Charlotte si getta a capofitto nell’arte. Altrimenti sarebbe morta.


È a questo punto che comincia a ripercorrere e a raffigurare la sua vita: fogli su fogli che esplodono di colori accesi e di contorni marcati, netti, violenti, in linea con la poetica di quei maestri espressionisti che Charlotte ha sempre ammirato e talvolta conosciuto di persona, tra i quali i grandi Chagall, Munch e Matisse.

Mancano due anni alla sua deportazione quando, nel 1941, conosce Alexander Nagler, un rifugiato austriaco ebreo che diventa suo marito. L’amore che l’uomo prova per lei non è corrisposto, ma Charlotte è confortata e rassicurata dalla sua vicinanza. Quando si sposano, il 7 giugno 1943, lei è già incinta. Si organizzano grandi festeggiamenti, il dottor Mordis fa da testimone, Charlotte ha 26 anni e sembra aver trovato una serenità che forse non aveva mai provato in vita sua. Ma si tratta di una serenità piccola e fragile, stroncata in breve tempo. L’8 settembre di quello stesso anno le truppe tedesche sbarcano in Costa Azzurra. Il 21 settembre Charlotte e il marito sono catturati e successivamente scaricati su un autocarro con direzione Aushwitz.
Quando viene uccisa, pochi giorni dopo il suo arrivo, la giovane è incinta di cinque mesi. Alexander Nagler muore di stenti qualche mese dopo l’arrivo.
Sebbene la sua sia una storia tragica, Charlotte Salomon muore libera. È un’espressionista: fa parte di quella schiera di artisti che si sono opposti alla rappresentazione realistica del mondo, in un periodo storico in cui il mondo era troppo brutto per diventare arte.
Muore libera perché non si toglie la vita come le donne della sua famiglia, ma dipinge fino a quando le viene concesso, combattendo ed esorcizzando la paura di morire. Muore libera, infine, perché nella parte finale del suo diario c’è una frase che, se l’avessero letta, i nazisti non avrebbero sopportato:
Dio, mio Dio, come tutto è bello.

Marianna Reggiani