È possibile trasformare la nostra relazione con l’ambiente e le specie che ci circondano e raggiungere la giustizia ambientale e sociale attraverso l’arte? Questo è il quesito alla base dell’attività curatoriale di Denise Araouzou.
Già manager dello spazio espositivo non-profit The Island Club di Lemesos e parte del team curatoriale della Biennale Mediterranea 19: School of Waters a San Marino, al momento sta sviluppando un progetto di ricerca intitolato Learning on a damaged planet, che promuove un approccio eco-pedagogico all’interno di pratiche artistiche e curatoriali collettive.
Francesca Conese – Cosa significa per te essere una curatrice e quali sono le sfide di questa professione nel XXI secolo?
Denise Araouzou: Secondo me, il curatore è una persona che racconta una storia e intraprende dialoghi. Durante la pandemia ho attraversato un momento di grande trasformazione e ho realizzato che la parte più interessante del mio lavoro è l’interazione con il pubblico. Ho anche iniziato a ragionare su pratiche immateriali, in cui l’idea artistica non si traduce necessariamente in un oggetto, ma in un modo di essere e di pensare. Il mio obiettivo è creare esperienze di apprendimento incentrate su quella che considero l’emergenza più grave, ossia la crisi climatica, utilizzando l’immaginazione, il gioco e un approccio interdisciplinare.
Credo che il ruolo di curatore oggi preveda di allontanarsi dalle luci della ribalta. La generazione precedente era in gran parte composta da curatori-star, che aspiravano ad essere ovunque e in qualunque momento, ma questo atteggiamento mi sembra incompatibile con l’epoca che stiamo vivendo: il ruolo del curatore del XXI secolo non è brillare, ma supportare gli artisti e creare ponti tra le persone.
FC – Come hai affermato in precedenza, il tuo lavoro ha un approccio “eco-pedagogico” e, al suo interno, il rapporto con il pubblico svolge un ruolo chiave. In che modo lo includi nella tua pratica?
DA: Al momento sto lavorando a un progetto di ricerca partecipativa, basato su un approccio eco-centred. Questo prevede una sperimentazione continua, da condurre a stretto contatto con tutte le persone implicate. Per questo, quando avrò modo di sviluppare un’attività educativa, cercherò di far partecipare il pubblico in modo attivo, di coinvolgerlo sin dall’inizio: chiederò loro cosa vogliono imparare e, in collaborazione con educatori, artisti e altri professionisti, arriveremo a formulare l’attività.
Credo fortemente in una frase di Timothy Morton: «The how is the what», cioè, il modo in cui fai qualcosa, determinerà la sua essenza.

Courtesy of Florine Zegers
FC – A questo proposito, quali personalità creative hanno influenzato la tua pratica curatoriale? In che modo è stata modificata dalla scelta di lavorare in luoghi marginalizzati, rispetto ai maggiori centri artistici contemporanei?
DA: Penso che tutte queste esperienze, soprattutto la Biennale Mediterranea, abbiano evidenziato l’importanza di collaborare con il pubblico locale. Quando si lavora in questi luoghi è ancora più importante coinvolgere la comunità e il territorio in cui questi eventi sono inseriti, per non alienarsi ulteriormente e creare un ambiente davvero stimolante per tutti.
Un esempio di queste pratiche eco-pedagogiche in ambito artistico è stata documenta fifteen, curata dal collettivo indonesiano ruangrupa. È straordinario che l’approccio anti-individualistico sia stato portato in una delle più importanti manifestazioni d’arte contemporanea. L’intero concetto su cui è stato basato il loro progetto curatoriale, il lumbung, è stato d’ispirazione per me, perché considera interconnessi i problemi sociali e ambientali e propone soluzioni tramite pratiche collettive.
Ho tratto anche ispirazione da pensatori provenienti da diverse discipline, tra cui Munir Fasheh, Carolyn Merchant, bell hooks, Berta Cáceres e molti altri.
FC – Come si inserisce in questo discorso il tuo progetto di ricerca Learning on a damaged planet? Quali saranno i suoi sviluppi futuri?
DA: Questa ricerca, finanziata dalla Kone Foundation e condotta tra Cipro, Italia, Svezia e Finlandia, analizza i programmi educativi attuali e cerca di capire come artisti e pratiche collettive li possano trasformare. Il suo punto di partenza è la convinzione che queste attività possano influenzare la pedagogia dell’ambiente e renderla eco-pedagogica. Il progetto include anche un modo radicalmente ecologista di pensare la nostra posizione nel mondo in relazione agli altri esseri, umani e non. Spero che diventi uno spunto per creare cambiamenti pratici, a livello europeo e locale.
FC – Pensi che questo tipo di approccio così radicale possa trovare spazio nelle grandi istituzioni culturali? Nonostante documenta fifteen ci abbia mostrato questa possibilità, al momento sembra ancora relegato a piccole realtà indipendenti.
DA: Penso che gli spazi minori stiano facendo cose incredibili, anche grazie alla loro flessibilità e alla loro connessione con le comunità locali. Per quanto riguarda le grandi istituzioni, che dipendono da donatori e sponsor, non penso che questo tipo di pensiero possa avere spazio senza compromessi: il rischio è che venga assorbito dalle esigenze di mercato. Credo anche, però, che ci siano realtà piuttosto prominenti che si stanno muovendo in direzioni interessanti: la Jan van Eyck Academie, ad esempio, si sta aprendo a una riflessione critica riguardo al modo in cui le istituzioni dovrebbero lavorare di fronte alla crisi climatica.
Penso che sia responsabilità delle grandi istituzioni mettere in discussione il loro ruolo all’interno della società e capire a chi appartengono davvero.