L’importanza di studiare i media, tra arte e innovazione – Intervista a Valentino Catricalà

Curatela e tecnologia, media literacy e innovazione. Temi caldi per l’arte contemporanea che rivelano nuove sfide e un urgente bisogno di nuove professionalità interdisciplinari. Ne abbiamo parlato con Valentino Catricalà, curatore della SODA Gallery di Manchester.

Valentino Catricalà

Studioso e curatore di arte contemporanea, Valentino Catricalà si è specializzato nell’analisi del rapporto degli artisti con le tecnologie e con i media e nel 2021 è stato nominato curatore della SODA – School of Digital Arts Gallery presso la Manchester Metropolitan University, dove è anche docente. Questa recente nomina affianca il suo incarico come curatore della sezione Arte della Maker Faire – The European Edition e di art consultant per il Sony CS Lab di Parigi. Oltre a scrivere numerosi saggi, è stato autore di volumi quali Media Art. Prospettive delle arti verso il XXI secolo. Storie, teorie, preservazione (Mimesis, 2016) e The Artist as Inventor (Rowman & Littlefiled, 2021). La sua esperienza nel campo lo ha reso l’interlocutore ottimale per una conversazione sull’importanza dello studio dei media in relazione all’arte, spaziando tra curatela e media literacy.

ODA Gallery, Manchester

STELLA D’ARGENZIO – In un’intervista precedentemente rilasciata a «Juliet Art Magazine» hai detto che oggi la distinzione tra New Media Art e arte contemporanea non è più così netta. C’è un’accettazione maggiore a livello istituzionale da parte dei musei tradizionali e c’è, forse, una crescente considerazione di reale e virtuale come due facce della stessa medaglia. La cosiddetta New Media Art è la forma d’arte in cui questo dualismo emerge più chiaramente, poichè materialità e immaterialità dell’opera sono interconnesse così come l’hardware e il software in un dispositivo. Però la SODA Gallery è una galleria di Digital Art. Vuol dire che nonostante il confine stia sfumando, c’è ancora bisogno di spazi specializzati?

VALENTINO CATRICALÀ: Il concetto che ho voluto esprimere in quella intervista si basa sulla mia formazione. Durante il mio dottorato, terminato nel 2014, mi rendevo conto che l’argomento che mi interessava-allora chiamato New Media Art- aveva dei confini abbastanza precisi, dei territori abbastanza definiti, e il mondo dell’arte non esprimeva verso di esso un grande interesse, reputandolo poco stimolante. Ricordo una lettera del 1967 di Philip Leider, allora direttore di «Art Forum», indirizzata a Matthew Baigell, in cui affermava: «I can’t imagine Artforum ever doing a special issue on electronics or computers in art, but one never knows». Queste divisioni sono continuate negli anni; i progetti che proponevo ai musei non erano molto considerati. Bisognava uscire dall’Italia per trovare determinati testi sull’argomento, andare nei centri di ricerca o in musei come lo ZKM di Karlsruhe o Ars Electronica di Linz dove mi recavo incontrando Oliver Grau, Ashley Zelinski e molti altri, come una sorta di community a parte. I confini erano molto netti allora. Oggi invece viviamo in un mondo in cui le divisioni, pur restando in piedi, sfumano, le barriere sono molto meno alte; basti pensare all’allestimento di alcune mostre o anche alla fondazione di veri e propri dipartimenti specializzati presenti, ad esempio, al MOMA o al MAXXI. E gli artisti che prima erano considerati “di nicchia” e vivevano grazie a università e centri di ricerca hanno cominciato a espandere così il loro pubblico. Questo sfondamento lo si nota anche nel nostro personale rapporto con la tecnologia. Prima i contenuti mediatici venivano realizzati per un medium specifico: la televisione a tubo catodico aveva una sua particolare programmazione, con contenuti realizzati su misura per il tipo di supporto e non trasportabile su altri media (radio, giornale etc.). Ora è difficile definire dove cominci e dove finisca un determinato contenuto e il medium stesso: tutto può essere condiviso ovunque. Anche qui il concetto stesso di confine viene decostruito: si parla infatti di Post-Media Condition o Post Digital poiché il medium non ha limiti e arriva anche al pubblico più generalista. Il punto da tenere ben chiaro però è che dire che le barriere si siano attenuate non vuol dire che esse non esistano più. Da questo punto di vista l’arte può essere vista come la musica: un insieme all’interno del quale si possono sviluppare generi differenti. A fronte di un genere più contemporaneo esistono comunque centri specializzati in cui si ascolta e produce musica classica. Il fatto che oggi le barriere nel mondo dell’arte siano meno divisorie  non vuol dire che, poi, non ci siano dei musei o dei centri specializzati, come può essere la SODA Gallery. Mi viene in mente una frase di Gene Youngblood, che nel 1970 nel saggio Expanded Cinema, riferendosi all’audiovisivo e al cinema disse: «Il cinema è l’arte di organizzare un flusso di eventi audiovisivi, è un flusso di eventi esattamente come la musica». Questo flusso di eventi si orienterà verso l’uno o l’altro genere musicale, o, in questo caso, artistico.

Lettera di Philip Leider a Matthew Baigell, 30 ottobre 1967, Courtesy ArtForum

SDA – Inevitabilmente la New Media Art dipende dalla tecnologia e dalla sua evoluzione storica, come allo stesso modo l’arte precedente era legata allo sviluppo della tecnica, del medium e dei materiali. La differenza fondante però potrebbe essere vista nella velocità con la quale le tecnologie si evolvono, soprattutto negli ultimi anni e di conseguenza la crescente quantità di opzioni e applicazioni che l’arte ha a disposizione. Ormai la storia della tecnologia e la storia dei media giocano un ruolo equamente importante nella creazione e anche nella ricezione della New Media Art che richiede una discreta media literacy. Quanto ti sei scontrato, nella tua posizione di curatore e, quindi, di interlocutore quotidiano con le nuove tecnologie e con la loro velocità evolutiva? Secondo te, c’è effettivamente bisogno di una media literacy per comprendere tali opere, sia nel pubblico ricevente sia in curatori e studiosi?

VC: Quando si lavora con la tecnologia, si lavora con medium complessi e questa complessità è intrinseca. Inevitabilmente quando si opera con il pennello si hanno una certa maneggevolezza singola e dei costi molto bassi. Con l’intelligenza artificiale, ad esempio, si inglobano però altri settori, come quello della scienza e della tecnologia, e spesso bisogna lavorare in team o affiancarsi a centri di ricerca, cosa che porta quasi sempre a costi altissimi. Si rompe così l’immagine dell’artista solitario, dentro il suo studio che, preso dal pathos della passione, realizza delle opere  – immaginario che esiste tuttora comunque in altri luoghi dell’arte. Diventa importante guardare alle caratteristiche proprie del mezzo, dato che un medium come la tecnologia ti costringe a farlo. La storia dell’arte non può prescindere dalla conoscenza di queste ultime: è un aspetto che viene spesso trascurato e si procede ancora con un approccio classico. Insieme a Sean Cubitt ho curato il nuovo numero della rivista semestrale «Visual Culture Studies», uscito a ottobre 2022, intitolato Art in the age of ubiquitous media. Cubitt ha affermato che i media art historians devono avere conoscenze di ingegneria simili agli artisti che trattano. Abbiamo bisogno sia di storici dell’arte sia di storici dei media, che abbiano un media background e un cultural background per seguire tutti i riferimenti che l’opera d’arte può portare con sé. Ciò significa anche aprire la mente ad altre culture, ad altre discipline. Non si parla più, come invece si faceva nell’estetica crociana, di immediatezza, del superamento del medium come parte integrante del lavoro dell’artista. Al contrario, esso è una componente fondamentale dell’opera che solleva anche un’altra problematica con questa sua complessità intrinseca: esso ha una sua presenza al di là dell’artista. Un pennello, senza una mano che lo utilizzi, non si muoverà e non realizzerà nulla. Un’intelligenza artificiale creerà qualcosa al di fuori dell’artista. Ed è questo automatismo della tecnologia che affascina enormemente: a volte opere con poco valore artistico – magari grande valore culturale e ingegneristico ma non artistico – vengono elogiate perché è il processo con cui sono state create che affascina. Si viene, quindi, dominati dalla tecnologia e non la si controlla poiché ci si rende conto che qualcosa creato da mano umana ha una vita propria. Questo crea una grande fascinazione e l’artista è colui che la domina. Nel suo caso, il grande pubblico vedrà l’opera e non avrà bisogno di troppe mediazioni culturali, non dovrà conoscere il software o l’hardware, perché l’opera è lì, diretta. 

SDA – Questa fascinazione della tecnologia può essere legata alla relativa giovinezza delle applicazioni contemporanee e, quindi, saturerà e decadrà nel tempo una volta che saremo molto più circondati e assuefatti verso un tale tipologia di arte o manterrà sempre alto il livello di stupore nel pubblico?

VC: La fascinazione è un elemento intrinseco a qualsiasi strumento che ha un’anima al di là di noi stessi. Storicamente la tecnologia, anche prima dell’accezione attualmente dominante, ha sempre prodotto questo effetto, basti pensare ai mulini, alle carrucole e così via. Un concetto di tecnologia diverso si è poi diffuso tra prima e seconda rivoluzione industriale, quando strumentazioni sempre più complesse hanno invaso la vita quotidiana. In quel momento si è reso necessario staccarsi dal concetto di tecnica e pensare a qualcos’altro. Tutta l’esultanza e, allo stesso tempo, la paura che si hanno di fronte ai processi tecnologici sorgono quando la macchina comincia a diventare una presenza. Insomma, reazioni molto simili a quelle che si possono avere di fronte ad un’intelligenza artificiale.  Spesso mi chiedono se l’intelligenza artificiale ci aiuterà o ci distruggerà. Questa domanda già fa trapelare il contesto culturale da cui proviene, già fa riferimento a un dualismo binario in cui personalmente mi sento stretto.

SDA – Collegandoci alla velocità di cambiamento delle nuove tecnologie, si legge spesso del problema riguardo la storicizzazione della New Media Art, sul come effettivamente ci si possa rapportare con forme estremamente estemporanee e nuove, in movimento, non- fisiche, che ovviamente spesso escono fuori dal “canone” della storia dell’arte. È possibile per te adattare lo sviluppo di questo canone ai nuovi approcci del mondo dell’arte e concepirli come processi storici sulla base delle “vecchie” categorie della storia dell’arte, o c’è bisogno di interrompere la formazione di questo canone e riformulare la storia in relazione all’attualità?

VC: La storia dell’arte si basa sulla storia.  Su di essa vengono poi aggiunte la psicologia dell’arte, le neuroscienze e tante altre discipline. Se la storia dell’arte è cambiata è perché l’idea di storia stessa si è modificata. Quindi cambia anche il modo in cui noi guardiamo alle cose. Le discipline storico-artistiche sono quelle con cui noi occidentali abbiamo imparato ad analizzare i fenomeni culturali. Ovviamente non è dappertutto così, ma guardando il nostro sistema di creazione del sapere, cancellare la categoria di storia dell’arte vorrebbe dire fondarne una nuova che, però, si baserebbe a sua volta su una serie di saperi che fanno parte del nostro modo di pensare. Bisognerebbe quindi aggiungere al nuovo concetto di storia delle altre discipline: lo sviluppo, la filosofia e la storia dei media. Io aggiungerei anche l’innovazione, una disciplina nata negli ultimi vent’anni e ancora poco assorbita dalla stessa storia dei media, ma che costituisce la categoria con cui gli economisti parlano dello sviluppo della tecnologia.
La storia deve aggiornarsi di pari passo con l’aggiornamento degli storici, integrando l’attualità.

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