La voce di un popolo
“Women, Life, Freedom” (Zan, Zendegi, Azadi in persiano) è il grido di protesta che sta scuotendo l’Iran dalla morte, avvenuta lo scorso settembre, della ventiduenne Jîna (Masha) Amini mentre si trovava sotto custodia della polizia religiosa di Teheran. Lo slogan di rivolta, coniato dalle donne curde che ora risuona in tutto il mondo, abbraccia una protesta capace di unire l’intera comunità iraniana, trascendendo le differenze di genere. Questa ribellione, portata silenziosamente avanti dalle donne iraniane fin dalla rivoluzione islamica del 1979 ed esplosa negli ultimi mesi, viene sostenuta ed amplificata anche dal mondo dell’arte grazie ad artiste come Shirin Neshat – e molte altre, da Shadi Ghadiriam a Nasin Nasr – che danno voce «all’assenza di libertà di espressione, rendendo quello delle donne dell’Islam, soggetto a regole severe e ridotto a oggetto di potere, una questione politica, artistica e poetica» (S. Marani, Women, Life, Freedom! Il grido di protesta delle donne dell’Iran risuona in tutto il mondo, 2022).

Shirin Neshat e la complessità della dimensione femminile
«Questo è ciò con cui il popolo iraniano ha imparato a fare i conti: l’assenza di libertà di espressione significa trovare modi di parlare senza davvero aprire bocca» (in “Inside Art”, 5 ottobre 2022): queste le parole di Shirin Neshat, artista nata nell’Iran senza velo, esiliata in America dopo la rivoluzione del 1979, cresciuta al confine tra il mondo orientale e quello occidentale, tra le falle dell’uno e le responsabilità dell’altro. La ricerca dell’artista iniziò a focalizzarsi sui diritti delle donne iraniane – ma soprattutto sullo studio della complessità della loro condizione – nel 1990 quando, dopo aver studiato e vissuto negli Stati Uniti (dove risiede tuttora), fece ritorno in patria trovando un Paese profondamente e drasticamente cambiato. All’indomani della rivoluzione il Paese infatti divenne una Repubblica islamica, vera «teocrazia con un sistema politico e istituzionale dualistico che, ancora oggi, ingloba tratti democratici e tratti dittatoriali» (S. Cattaneo, Shirin Neshat, l’arte come denuncia. Storia di un’artista coraggiosa, 2021). In risposta a questo traumatico cambiamento Neshat avverte una nuova urgenza comunicativa: decide di imbracciare la sua arte come un’arma, contro un governo oppressivo da un lato e contro gli stereotipi dall’altro, creando momenti di dialogo e discussione.
Storie coraggiose
Le fotografie, i video e i film girati da Neshat a partire dagli anni Novanta rispondono a questa precisa esigenza: esplorare l’identità (specie quella femminile) del Paese da cui lei stessa proviene, aumentando la consapevolezza circa il rapporto tra il personale e il politico. È da questi presupposti che nel 1993 nasce la serie fotografica Women of Allah.

In questa serie l’artista indaga volti e corpi di donne iraniane che rappresentano il simbolo di una condizione sociale e di una ribellione fatta sì di fucili, ma soprattutto di sguardi e di parole che non potendo esser dette ad alta voce lasciano traccia sui palmi delle mani, sui volti lasciati scoperti dal tradizionale chador o sui piedi: versi scritti a mano in calligrafia farsi, i cui contenuti variano «da soggetti religiosi a profani, fino a esplorare le sfere dell’intimità, della sessualità, del femminismo» (Shirin Neshat, in ”Associazione Genesi”, 2022) che qui si trasformano nella seconda pelle delle Donne di Allah, armate e s-velate. Sono opere di poetesse come Forugh Farrokhzad e Tahereh Saffarzadeh, figlie inquiete della terra iraniana, bandite all’indomani della rivoluzione.
Le donne di Neshat si connotano allora come «”figure in potenza” (…) immobili ma pronte all’azione» (S. Cattaneo, Shirin Neshat, l’arte come denuncia. Storia di un’artista coraggiosa, 2021), assolutamente vive seppur statuarie, incredibilmente loquaci seppur silenziose. Si restituisce così la figura femminile in tutta la sua complessità, ritratta nel doppio ruolo che la società post-rivoluzionaria le assegna: da un lato bloccata nelle rigide restrizioni religiose, dall’altro invece «responsabile, partecipe e guerriera» (Shirin Neshat, in ”Associazione Genesi”, 2022).
Come accennato prima, Shirin Neshat non si dedica solo al mezzo fotografico, ma sperimenta ben presto anche quello filmico, che nell’arco della sua carriera le varrà prestigiosi premi internazionali, tra cui il Leone d’Argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2009.
Turbulent è il titolo di una videoinstallazione del 1998 tra le più acclamate dalla critica, con cui si aggiudicò il Leone d’oro alla 48esima edizione della Biennale di Venezia (1999): i protagonisti sono due cantanti, un uomo e una donna, interpretati rispettivamente dall’artista e filmmaker Shoja Azari (compagno di vita e collaboratore di Neshat) e Sussan Deyhim, famosa compositrice e vocalista iraniana.


L’uomo, in piedi su un palco di una sala da concerto piena e illuminata, ha di fronte un pubblico numeroso tutto maschile. All’opposto, una donna vestita con il tradizionale chador nero è sola, senza pubblico alcuno e immersa nell’oscurità. L’uomo intona una vecchia canzone d’amore iraniana e, quando finisce di cantare tra gli applausi, ha inizio l’esibizione della donna. Solitaria e velata, inizia a vocalizzare una serie di suoni profondi rivolgendosi alla sala vuota. Non canta ma esegue quasi degli ululati, dei sospiri, delle urla. Non canto d’amore quindi, ma grido universale.
Il titolo scelto e la struttura stessa dell’opera, con il visitatore che si ritrova al centro tra i due schermi opposti, esalta la dualità insita nel lavoro e crea un dialogo intriso di tensioni e differenze: il rapporto uomo-donna, libertà-oppressione, canto-silenzio (U. Nair, Shirin Neshat’s ‘Turbulent’ makes a timely appearance in the backdrop of #MeToo, in ‘’Architectural Digest’’, 2019).
Ragazze, l’Iran vi appartiene
Quello che l’artista ci mostra – o meglio, ci svela – è la complessità della condizione della donna iraniana, le sue difficoltà ma soprattutto la sua identità, la sua fede, la sua forza. Non solo, ci parla della storia del suo Paese e della volontà del suo popolo, così come delle speranze che ripone in esso. Ma dobbiamo fare attenzione a non cedere allo stereotipo – tipicamente occidentale – del voler pensare a tutti i costi che il lavoro di Shirin Neshat sia finalizzato solamente a muovere accuse od offendere una specifica forma di credo religioso o politico. La sua è un’arte che non punta il dito su ciò che è giusto o ciò che è sbagliato, ma sa creare invece momenti di discussione e di riflessione profondamente significativi.
Ciò che Neshat ha deciso di fare è stato mettere al centro della sua pratica artistica il diritto alla libertà di espressione, il diritto di scelta, di avere una fede, il diritto di gridare, di lottare, di cantare.
E mentre le donne di Neshat ci parlavano tramite gli sguardi, i movimenti delle mani, i testi delle poetesse bandite, ora le stesse donne parlano ad alta voce, gridano, urlano, si fanno vedere, si tagliano i capelli e bruciano i loro chador non perché hanno perso il loro credo, ma perché l’hanno riscoperto.
Eva Chemello