Il termine blockbuster è mutuato dalla lingua inglese e nella Seconda Guerra Mondiale viene usato per indicare i massicci bombardamenti aerei. Successivamente viene adottato dall’industria cinematografica per descrivere i film commerciali. Tutto ciò che genera un consumo importante è ora definito prodotto blockbuster, anche alcune mostre. Tomaso Montanari definisce le mostre blockbuster come:
non elitarie, rivolte a un pubblico di famiglie, dedicate ad alcune tra le star dell’arte moderna e a movimenti iperpop (gli impressionisti in primo luogo); concentrarsi su tematiche facili […], presentare opere di non eccelso livello prelevate da importanti musei internazionali in cambio di fees elevati
Il j’accuse di Montanari prosegue senza mezzi termini nel suo celebre saggio Contro le mostre, scritto a quattro mani con Vincenzo Trione, e potrebbe sollevare una questione: effettivamente, nella nostra epoca, nel nostro paese, che bisogno c’è di questo tipo di prodotto?

C’è chi rivendica il fatto che non si possa immaginare l’Italia come un cimitero dell’arte e sottolinea l’esigenza di un flusso di opere e di idee. Ma, per fare questo, c’è mostra e mostra. La profusione di mostre blockbuster è all’ordine del giorno e forse è anche fisiologico, semplicemente per una questione di numeri. Se in un anno venisse proposta una sola mostra in tutto il paese, con buona probabilità sarebbe di grande qualità, poiché tutte le risorse convoglierebbero lì. Ma se invece se ne propongono migliaia – come accade – , necessariamente qualcuna sarà meno accurata. Allo stesso tempo, sono tutte potenziali occasioni di business. Le mostre blockbuster fanno leva su questo. Si sceglie un artista molto noto e, come dice Montanari, “mediaticamente efficace” e si espone quello che si riesce ad ottenere in prestito, creando attenzione con pubblicità massiccia e facendo pagare prezzi importanti per accedere.

Quello che è certo è che non è sufficiente esporre capolavori per fare una mostra capolavoro e la storia delle mostre è piena di allestimenti che hanno diviso la critica. Ne citiamo solo uno, piuttosto esplicativo.
Nel 2015 la mostra più visitata in Italia è stata Tutankhamon Caravaggio Van Gogh. La sera e i notturni dagli egizi al Novecento nella Basilica Palladiana di Vicenza, in cui si è sentita la necessità di accostare il volto di Tutankhamen re bambino a Rothko, passando per Canaletto, El Greco, Mondrian, Klee, Turner, Piranesi e molti altri per studiare il tema della notte. Il curatore Marco Goldin ha spiegato così le sue scelte nel catalogo della mostra:
Non desidero spiegare niente a nessuno, ho solo la gioia di mostrare che una finestra di Giorgione, oltre la quale sta il velluto di una notte chiara, io la possa appendere accanto a una finestra dipinta da López García quasi cinquecento anni dopo, quando una tangenziale butta la notte della periferia di Madrid dentro quella stessa finestra aperta. Penso che si possano fare mostre anche così, né migliori né peggiori di altre, ma diverse. Dove, sulla stessa parete, a Bellini non debba per forza succedere Giorgione, e dopo di lui Tiziano
Non a caso, la precedente mostra ospitata dalla Basilica Palladiana è stata Raffaello verso Picasso, sempre curata da Goldin con la medesima filosofia.

Forse siamo ancora affascinati dal concetto vasariano di artista genio, per cui sentiamo che valga la pena spendere cifre importanti, affrontare lunghe file e accalcarsi in sale gremite di gruppi di turisti per vedere dal vivo alcune opere di un artista celeberrimo. Francis Haskell, studioso inglese della storia sociale dell’arte, dice una cosa importante: «una esposizione temporanea, e dunque effimera, può mutare in modo radicale la nostra percezione persino delle ortodossie più consolidate». Ed è proprio questo il fine ultimo della ricerca e delle mostre. Quindi talvolta è giustificato esporre alcune opere, sempre seguendo criteri di razionalità e scientificità, a qualche rischio se il beneficio che si trae è maggiore. È dello stesso avviso Cecilie Hollberg, direttrice delle Gallerie dell’Accademia di Firenze, poiché si è sempre preoccupata di proporre poche mostre – una all’anno – ma scientificamente accurate. In merito alla questione, durante un’intervista con Lilli Gruber, puntualizza che «bisogna vedere di non prostituirsi come museo, mantenere la dignità del posto». Così facendo, Hollberg mette in chiaro che l’importanza didattica delle mostre temporanee equivale a quella delle esposizioni permanenti. È certo che in Italia, specialmente fuori dai circuiti del turismo di massa, bisognerebbe impegnarsi per promuovere il patrimonio permanente in maniera sostenibile, enfatizzando il suo ruolo di primo promotore della cultura.
Come dice Jonathan Jones in un articolo pubblicato sul «The Guardian» del 2001, ma incredibilmente attuale:
C’è qualcosa dei grandi show che cancella i momenti di scoperta, sorpresa, disorientamento che fanno vivere l’arte. L’arte è difficile. Non tutta l’arte, non tutta l’arte di una stessa persona può interessarti nello stesso momento. Ma questa è la premessa per le mostre blockbuster – ossia che puoi fare una fotografia mentale di 30, 50, 80 opere di Rembrandt e che questo significherà qualcosa
In conclusione, le mostre blockbuster non devono essere demonizzate se permettono a tante persone, magari anche neofiti, di avvicinarsi al mondo dell’arte. D’altro canto però, il sistema cultura dovrebbe impegnarsi sempre di più nella diffusione della ricerca scientifica e il pubblico dovrebbe accogliere con scetticismo critico la proposta culturale temporanea e permanente e, sicuramente, mantenere vivo il dibattito.
Giulia Spriano