Adrian Piper, passing e identità

Dal video alla caricatura, Adrian Piper ha continuamente esposto sé stessa, coniando un’identità performativa e pubblica capace di imbarazzare il pubblico per bias cognitivi di tutti i giorni.

Nel 1970 una donna saliva su un treno di New York nell’ora di punta con i vestiti imbevuti in qualcosa che odorava di rancido (quel qualcosa era una mistura di aceto, uova, latte e olio di fegati di merluzzo, nella quale gli abiti erano rimasti a macerare per una settimana). Nel 1971 quella stessa donna saliva su un autobus, poi entrava in metro e infine nell’ascensore dell’Empire State Building con un largo asciugamano bianco stipato in bocca, tanto da far raddoppiare la dimensione delle sue guance e facendo uscire il restante tessuto che rimaneva appeso dal suo mento.

Adrian Piper, Catalysis III (details), 1970, tre stampe alla gelatina con sali d’argento, 16 cm × 16 cm. Adrian Piper, Catalysis IV (details), 1970, tre stampe alla gelatina con sali d’argento, 16 cm × 16 cm., foto di Rosemary Mayer, courtesy Artforum.

Nel 1988, sempre quella donna dichiarava di essere una donna nera. Nel 2012 ancora lei, affermava, parlando di sé in terza persona che andava in pensione, non dal suo lavoro, ma dall’essere nera.
Quella donna era, ed è, Adrian Piper, artista Newyorkese nata nel 1948, che, attraverso una ampia varietà di medium artistici ha caratterizzato il panorama artistico americano e non solo, in quella che nella storia afroamericana è definita la “Post- Civil Right Era”. Una periodizzazione tutt’ora vigente che parte dall’abrogazione di tre leggi federali che hanno interrotto la segregazione raziale: il “Civil Rights Act” del 1964, il “Voting Rights Act” del 1965 e il “Fair Housing Act” nel 1968. Il lavoro di Piper si sviluppa subito dopo, raccogliendo l’eredità teorica e artistica di movimenti come l’Harlem Renaissance ed elaborando una propria idea di arte performativa, visiva e politica. Scopo del multiforme lavoro di Piper è una riflessione costante sull’identità e sui bias e stereotipi con i quali il mondo occidentale si è rapportata a lei e l’ha giudicata, in quanto donna e in quanto nera e soprattutto in quanto donna nera. L’approccio intersezionale ante litteram di Piper si traduce in azioni ironiche, e apparentemente comiche, che però rendono espliciti i limiti dell’economia binaria occidentale. Anche se la sua arte è finita in grandi istituzioni museali americane, dandole una sorta di posizione privilegiata all’interno del panorama artistico afroamericano, Piper ha utilizzato nel tempo proprio questa posizione per decostruire dall’interno l’apparente solidità del sistema discriminatorio artistico e sociale. Con suoi alter- ego ha messo in scena una beffa di quegli stessi stereotipi di cui è stata vittima, puntando a dare voce ai “subalterni”.

Passing for white

L’oggetto del suo lavoro è paradossalmente sempre sé stessa, il suo corpo, la sua identità, esponendo la sua vita e le sue esperienze. Nel suo saggio Passing For White, Passing For Black, pubblicato sul numero 58 della rivista «Transition» nel 1992, Piper traduce in parole il soggetto costante delle sue opere e performance: il passing, o cultural performance. Daniel G. Renfrow definisce tale concetto come la situazione in cui:

Individuals perceived to have a somewhat threatening identity present themselves or are categorized by others as persons they are not. […] Both passing and everyday passing are often responses to miscategorization. In other words, when an audience miscategorizes an individual, she or he may decide to go along with the audience—and hence pass reactively—rather than contest the miscategorization.

Daniel G. Renfrow, A Cartography of Passing in Everyday Life, 2004

Piper riporta nel suo testo la continua miscategorization di cui è stata vittima durante le sue esperienze accademiche, lavorative e sociali. Il continuo limbo identitario in cui veniva posta dagli altri si concretizzava in discriminazioni sia da parte dei bianchi sia da parte dei neri. Il suo aspetto era un costante deterrente per definirla, ma mai uno spazio per lasciarla definirsi autonomamente: «My family was one of the very last middle-class, light-skinned black families left in our Harlem neighbor- hood after most had fled to the suburbs; visibly black working-class kids my age yanked my braids and called me “pale- face. » (Adrian Piper, Passing for White, Passing for Black, 1992)
Sin dalle relazioni sociali avute nell’infanzia, l’artista ha dovuto riflettere sul suo aspetto, sulla sua pelle, sui suoi connotati, chiedendosi quale sarebbe stata la categoria nella quale sarebbe stata posta la prossima volta. Il risultato di questi dubbi, di queste riflessioni, è riscontrabile in molte delle sue opere: l’appellativo “pale-face” diventa uno slogan politico e visivo nel Political Self-Portrait #2 (Race) del 1978:

Adrian Piper, Political Self-Portrait #2 (Race), 1978, collage fotostatico, courtesy Richard and Ellen Sandor Family Collection

L’impossibilità di rientrare nel binarismo bianco/nero diventava però un terreno fertile per combatterlo, o meglio ancora comprometterlo, mostrando ciò che c’è in mezzo ai due estremi e personificare lo slash tra di essi. L’analisi condotta dall’artista si sviluppa partendo da ciò che chiama “perceptual issues”: “We need to understand how these deeply buried archetypes function in our character and personalities, how they engender a sense of security when people look and act as they are ‘supposed to’ and fear and anger when they don’t. These perceptual issues are fundamental.” (Maurice Berger, The Critique of Pure Racism: An Interview with Adrian Piper, Afterimage, 1990.)

Le caricature

Le opere dell’artista hanno lo scopo di interrogare lo spettatore su quel “senso di sicurezza” che lei mette sempre in discussione, rimanendo in una zona liminale e ambigua, che stenta ad essere definita, per mettere in difficoltà la percezione del pubblico. Nel Self-Portrait Exaggerating My Negroid Features., del 1981, l’artista, attraverso le tecniche della caricatura, esagera e modifica i suoi connotati spesso definiti ambigui per rientrare nella stereotipata immagine della donna nera.

Adrian Piper, Self-Portrait Exaggerating My Negroid Features, 1981, matita su carta, 20.3 x 25.4 cm, Collection Eileen Harris Norton, courtesy Adrian Piper

Lo spettatore che vorrebbe definirla è costretto a cadere nei suoi stessi bias, perché “obbligato” dalle fattezze tradizionalmente assegnate alle persone nere. Si disvela così l’irrisorietà del voler definire una persona solo sulla base dell’aspetto fisico. Il percorso che Piper elabora negli anni sul concetto di identità sembra poi andare di pari passo con una riflessione sulla sua stessa identità. L’istallazione video Cornered del 1988 presenta allo spettatore una disposizione triangolare di sedie il cui apice è uno schermo che ospita nuovamente il viso dell’artista. Le parole d’apertura – “I am Black” – sono una dichiarazione di identità che potrebbero disturbare la presunzione dello spettatore di definirla bianca. La disposizione spaziale delle sedie costringe gli spettatori a posizionarsi in un determinato modo, così come le parole di Piper li obbligano a riflettere sulle difficoltà morali, sociali e politiche della determinazione etnica.

Adrian Piper, Cornered, 1988, Installazione video con certificati di nascita, video, colore, suono a canale singolo, monitor, tavolo, sedie, Collection Museum of Contemporary Art Chicago. Bernice and Kenneth Newberger Fund (1990.4.a-p), foto: Nathan Keay, courtesy MCA Chicago

Per quando non si possa dire con certezza che ci sia un esplicito riferimento a Cornered, un’altra azione di Piper ritorna nuovamente sul tema. Ventiquattro anni dopo, l’artista dichiara nel 2012 di andare in pensione dal suo essere nera nel ritratto digitale Thwarted Projects, Dashed Hopes, A Moment of Embarrassment. Riprendendo l’intento caricaturale del ritratto del 1981, Piper scurisce la sua pelle, alza l’attaccatura dei capelli e modifica le sue labbra per creare ancora più dissonanza con la dichiarazione che accompagna l’immagine: «Adrian Piper has decided to retire from being black. In the future, for professional utility, you may wish to refer to her as The Artist Formerly Known as African American. » (Adrian Piper, Thwarted Projects, Dashed Hopes, A Moment of Embarrassment, 2012).

Adrian Piper, Thwarted Projects, Dashed Hopes, A Moment of Embarrassment, 2012, autoritratto digitale, 15.24 x 19.97 cm, courtesy APRA Foundation Berlin

Il centro focale di questa dichiarazione è per Antonia Rigaud, l’uso della parola “retire”, letteralmente “ritirarsi”, ma utilizzato in inglese per esprimere l’“andare in pensione”. Utilizzare questa sfera semantica vuol dire dichiarare come l’essere nera sia un lavoro: «She is reclaiming agency in refusing to accept race as a given. Retiring “from being black” reads as claiming her own identity, on her own terms. » (Antonia Rigaud, Performance and Identity in Adrian Piper’s Work, 2020).

Attuale dopo cent’anni

Andare in pensione dall’essere nera vuol dire anche che ad un certo punto Piper ha deciso di essere nera, come normalmente un individuo decide di essere uno scrittore, un ingegnere e così via.
La continua problematizzazione della sua identità sembra rispondere, un secolo dopo, alla domanda che W. E. B. Du Bois, sociologo, storico e attivista per i diritti civili, aveva posto nel 1909 nell’importante testo The Souls of Black Folk:

Between me and the other world there is ever an unasked question: unasked by some through feelings of delicacy; by others through the difficulty of rightly framing it. All, nevertheless, flutter round it. They approach me in a half-hesitant sort of way, eye me curiously or compassionately, and then, instead of saying directly, How does it feel to be a problem?

W. E. B. Du Bois, The Souls of Black Folk, 1909

L’opera di Piper raccoglie questa domanda e ne sottolinea la costante attualità, rovesciandola e sottoponendola allo spettatore bianco. Sei sicuro di non essere tu il problema?

Stella d’Argenzio

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