Museo San Fedele. Un itinerario cromatico tra arte contemporanea e fede

Nel centro di Milano, l’arte contemporanea e la religione dialogano profondamente dal 2015, anno in cui è stato inaugurato il Museo San Fedele. I visitatori, posti di fronte a opere, tra gli altri, di Fontana, Kounellis e Simpson, si interrogano sulla trascendenza e intangibilità della religione, in un confronto con l’assoluto.

David Simpson, Gerusalemme Celeste, 1995, acrilico su tela, Chiesa di San Fedele, exhibition view. Courtesy of Luca Casonato

Nel centro di Milano, alle spalle di Piazza della Scala, l’arte contemporanea e la religione dialogano profondamente dal 2015, anno in cui è stato inaugurato il Museo San Fedele, situato nella Chiesa di San Fedele, opera degli anni ’60 del ‘500 dall’architetto manierista Pellegrino Tibaldi. Il percorso espositivo, che si snoda lungo tutti gli spazi della chiesa a navata unica – elemento tipico, questo, delle chiese dell’ordine dei gesuiti –, è stato pensato e realizzato dal curatore Andrea Dell’Asta. Secondo quest’ultimo, «la Chiesa deve riprendere a comunicare con la cultura a lei contemporanea, dopo secoli di frattura. […] E, per comunicare, occorre imparare i linguaggi della contemporaneità, sapere ascoltare, dare risposte credibili».

Accanto ai grandi nomi della pittura manierista, quali Simone Peterzano e il Cerano, sono presenti nomi altrettanto grandi dell’arte contemporanea, con tele, installazioni e bozzetti. Nella navata, accanto all’ingresso della sacrestia, sull’altare della Guastalla la Pala del Sacro Cuore (1956) di Lucio Fontana occupa lo spazio un tempo destinato a una pala di Bernardino Campi e sporge, lucida, tra due colonne dislocate: per la pala composta di ventotto formelle in ceramica, Fontana si ispira all’iconografia tradizionale del Sacro Cuore che appare alla santa Margherita Maria Alacoque. Già dagli anni Cinquanta, dunque, la Chiesa di San Fedele si apre ai nuovi linguaggi dell’arte, rendendo uno spazio come la Chiesa, solitamente considerato estraneo allo scorrere del tempo, sensibile a nuove rappresentazioni, nuovi stili e nuovi discorsi artistici.

Gli inserti di contemporaneo proseguono nella cappella delle Ballerine, dove fino agli anni Ottanta le ballerine della Scala portavano un fiore prima del debutto in omaggio a una Maria che allatta, un’antica iconografia che si riscontra nei Vangeli apocrifi, messa all’Indice dei libri proibiti durante la Controriforma. A questa rara iconografia si accostano due pannelli monocromi realizzati nel 2013 dall’artista irlandese Sean Shanahan, il quale ha scelto due colori tipicamente associati alla figura della vergine, il rosa e l’azzurro. La ballerine che per anni si sono recate nella chiesa vengono omaggiate dall’installazione Ex voto (2014) di Mimmo Paladino: le scarpette in bronzo argentato sono applicate al muro a richiamare la tradizione degli ex voto e dei cuori sacri in argento.

Mimmo Paladino, Ex voto, 2014, scarpette in bronzo argentato, Chiesa di San Fedele, exhibition view. Courtesy of Luca Casonato

All’argento, il rosa e l’azzurro, si aggiunge l’oro, in una composizione cromatica pregna di significato e di spiritualità. Christiane Löhr, allieva di Kounellis, per l’opera Samenwolke (2020) decora con una nuvola di semi dorati – cardo selvatico, edera, graminacee – il cupolino della Cappella, instaurando un dialogo tra la natura e la Madonna, accomunate da una salvifica fertilità, simbolo di rinascita e dell’essenza del mondo rappresentato in tutta la sua potente semplicità e umiltà.

Alla parte principale della chiesa, l’abside, si giunge attraversando la simbolica installazione Frammentazione verso la Gerusalemme celeste (2018) di Christian Megert, membro del Gruppo Zero: il corpo è costretto a passare in uno spazio angusto completamente rivestito di specchi riflettenti; ci si trova in un corridoio in cui lo spazio si estende a dismisura e ci si sente spaesati tra la consapevolezza della finitezza dell’ambiente e l’illusione dell’estensione infinita delle superfici, tra la visione del riflesso dell’abside, verso cui si tende, e lo spaesamento momentaneo e la perdita di riferimenti. Si interroga la propria figura e la propria identità, in un ideale porsi di fronte alla propria coscienza prima di giungere alla Gerusalemme celeste.

All’interno di questo spazio sacro, aleggia un senso di leggerezza (nonostante il visitatore sia posto di fronte a opere che interrogano la religione in tutti i suoi aspetti più complessi) e di placidità, accentuato dalla scelta di colori chiari per le architetture. Con questa scelta cromatica si raccordano dolcemente le tre tele monocrome del pittore americano David Simpson, dal titolo Gerusalemme Celeste (1995). Per i tre acrilici, donati dal collezionista Giuseppe Panza, sono stati scelti i colori oro, rosso e azzurro, tutti e tre connotati da una pregnanza significativa legata alla religione, alla presenza del Divino, alla passione di Cristo e all’etereo Spirito Santo; in parte, inoltre, i colori richiamano quelli presenti nella precedente Cappella delle ballerine. Nell’abside, spazio tradizionalmente inteso come simbolo della Gerusalemme Celeste che si concretizza sulla terra, i dipinti si costituiscono come una fonte di luce a cui guardare e in cui guardare, una superficie da indagare nella sua mutevole monocromia. Le tre tele evocano la Trinità contemporanea, eterna ma in continuo cambiamento.

Questa attenzione ai dettagli cromatici, un fil rouge che si può riscontrare durante la visita – ma, più in generale, in una tradizione precedente e in un’iconografia radicata nella storia dell’arte –, giunge al suo apice in un’altra Gerusalemme Celeste, quella di Nicola De Maria (2015), il quale accosta nella cupola del Sancta Sanctorum spicchi di colore verde, rosso, giallo e blu; dalle tinte tenui di Simpson si passa a una vera e propria esplosione di colori accesi e gioiosi. I reliquiari qui collocati sono inseriti all’interno di una cornice che esalta il valore del sacrificio compiuto dai martiri.

In seguito a questo tripudio coloristico, per le ultime opere ci si orienta prima su due tonalità in opposizione dialettica, due colori che tutto contengono, il bianco e il nero, per poi compiere un passaggio dal bianco al nero e poi al marrone. La Corona di spine (2014) di Claudio Parmiggiani, posta sull’altare maggiore, è un rimando tanto al supplizio del Cristo quanto all’immagine dell’aureola: un filo spinato in argento, circondato da un filo d’oro, è strumento di dolore e sofferenza, ma anche simbolo di resurrezione e passaggio dalla morte alla vita. Anche nel Sepolcro Glorioso (2018) di Ettore Frani si accenna al corpo – assente, ma quanto mai presente – di Cristo: in un’atmosfera sospesa e silenziosa, il telo della Sindone appare in tutto il suo candore.

Ettore Frani, Sepolcro glorioso, 2018, olio su tavola laccata, Chiesa di San Fedele, exhibition view. Courtesy of Luca Casonato

Scendendo nella cripta seicentesca, ci si trova di fronte a un sacco marrone appeso a una trave e al cui interno si percepisce la presenza di una croce, ennesimo simbolo della passione di Cristo: Senza titolo – Svelamento di Jannis Kounellis (2012) rende percepibile, ma invisibile alla vista, una croce; il simbolo della Chiesa è celato, ma svelato in tutta la sua potenza e carica allegorica. Il trascendente si fa immanente, l’invisibile si rende visibile e colpisce, affascina, stupisce e spaventa.

Il Museo San Fedele si completa con una galleria che lungo quattro pareti affianca opere di periodi e stili variegati, tra le quali si può vedere Sacro Sud (2010) di Mimmo Paladino o uno degli Achrome (1961) di Piero Manzoni, ma anche i bozzetti delle opere di Fontana e di Kounellis presenti nella Chiesa: è possibile così anche conoscere i retroscena di questo unicum espositivo.

La Chiesa di San Fedele si presenta come un concentrato di opere sì dal forte valore spirituale e religioso, ma suscettibili di analisi e profonda interrogazione anche dai non credenti, atei, agnostici o fedeli di altre religioni, posti di fronte a un’arte che non si concentra più tanto su soggetti figurativi e lascia i visitatori di fronte all’inesplicabilità e intangibilità della religione e al confronto con l’assoluto; le opere non forniscono risposte o soluzioni, ma continuano un dibattito secolare intorno ai temi della fede.

Costanza Mazzucchelli

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