L’artista israeliana negli ultimi vent’anni ha reso il Mar Nero il suo laboratorio privato di creazione, realizzando legami poetici tra uomo e natura, quando sembra impossibile averne di nuovi.
«Transformation and metamorphosis are my keywords» (Sigalit Landau, Leslie Camhi, Centrifugal Force, 2008) è quello che afferma l’artista israeliana Sigalit Landau. Raramente due parole sono state più letteralmente descrittive di un lavoro lungo vent’anni. Classe 1969, Landau è un’artista multimediale, nel senso stretto della parola: attraverso video, performance, sculture e installazioni ha portato avanti un pensiero poetico e allo stesso tempo quasi politico affermandosi nel panorama artistico contemporaneo. Dal 2004 ha trasformato il Mar Morto nel suo laboratorio: il luogo con la minore altitudine al mondo, inospitale per organismi viventi e, allo stesso tempo, rinomato per i suoi preziosi minerali, confinante con Giordania, Israele e i territori riconosciuti dalle autorità palestinesi. L’artista ha abbracciato questi estremi ecologici e geopolitici del sito rendendoli teatro fisico e simbolico della creazione di oggetti perturbanti, nello specifico senso freudiano, ovvero di oggetti familiari ma che portano con loro significati e tratti prima nascosti che ora affiorano e inquietano. Casualmente, proprio nella definizione che F.W.J. Schelling dà della parola Unheimlich (perturbante) emerge la parola affiorare: «È detto unheimlich tutto ciò che potrebbe restare […] segreto, nascosto, e che è invece affiorato». Landau sembra inconsciamente abbracciare tale significato facendo letteralmente emergere dalla superficie del Mar Morto oggetti di tutti i giorni. La differenza rispetto al loro quotidiano aspetto è proprio l’aver trascorso del tempo immersi e nascosti, ma in un’acqua particolare come quella del lago salato.

La scelta di questo paesaggio per strutturare la sua ricerca artistica si articola non solo abbracciando le caratteristiche morfologiche e biologiche del Mar Nero, ma anche quelle simboliche, tessendo un filo rosso tra la storia del luogo, la vita privata dell’artista e il tipo di oggetti che utilizza. La collocazione geografica del sito, al confine tra tre zone calde della storia novecentesca, sottolinea l’importanza della riflessione sui “confini” o “margini” che caratterizzano la storia della stessa artista.
«I have a natural tendency to detect shulayim, margins. There’s some kind centrifugal force that sends me always to the edges of cities or societies. Perhaps it’s because my parents were immigrants.» (Sigalit Landau, Leslie Camhi, Centrifugal Force, 2008)
Nata da madre inglese e padre romeno, emigrati in Israele in tempi diversi, Landau nasce a Gerusalemme e cresce negli anni in cui quella terra urla la sua storia e i suoi simbolismi, dei quali il Mar Nero diventa fulcro, testimone costante degli avvenimenti umani. Da questo passato l’artista viene affascinata affermando più volte come possa essere facile anche sentirsi sovrastati da tanto simbolismo: «it’s kind of a non-place. It’s a crystallized chunk of stories more than a place. » (Sigalit Landau, Leslie Camhi, Centrifugal Force, 2008)
La sposa di sale
La cristallizzazione, sia fisica che simbolica, si incarna nelle opere dell’artista. Nell’opera Salt Crystal Bridal Gown 1-8 del 2014, Landau riprende la storia di Lea, la protagonista di The Dybbuk, or Between Two Worlds, un dramma teatrale di S. Ansky, pseudonimo di Shloyme Zanvl Rappoport, scritto tra il 1913 e il 1916 e tradotto poi dallo stesso autore dal russo all’yiddish pochi anni dopo. Nella versione del 1922, la protagonista, interpretata dall’attrice russo-israeliana Hanna Rovina, recita in un abito nuziale nero, fintanto che lo spirito del suo vero amore, morto dal dolore del suo abbandono, la possiede. Quando viene liberata dalla possessione, riemerge dalle quinte con lo stesso abito, ma bianco come a simboleggiare la guarigione della sua anima e del suo corpo. Landau riprende questa iconografia, senza cambiare abito però: lascia al mare e alla natura il compito di cambiare il colore dell’oscuro vestito da sposa nero di Lea, trasformandola in una sposa di sale.

Un altro aspetto attraente del lago per l’artista è la sua galleggiabilità: «it’s like being on the moon, more or less.» (Sigalit Landau, Leslie Camhi, Centrifugal Force, 2008). Anche fotografare le opere diventa una sfida non da poco. Il compagno di Landau, fotografo e sommozzatore, Yotam From ha dovuto legare a sé ingombranti pesi per permettergli di non galleggiare e di poter restare a fondo. L’ installazione fisica delle foto realizzate, stampate in grande formato e disposte in ordine cronologico (dello sviluppo dei cristalli di sale sul vestito), ha permesso un’immedesimazione tra spettatore e fotografo: «Standing in the room here, surrounded by the eight photographs, is a bit like being in an underwater observatory. The deep end of this show – as a viewer you too are submerged. » (Sigalit Landau, Salt Crystal Bridal Gown, 2011). Torna il tema del margine, ambientale in questo caso, barriere fisiche che possono essere superate in modo armonico per entrambe le parti.
Dal Mar Nero alla Polonia
Nel 2011 Landau realizza Salt Lake, un’opera video in cui un paio di stivali, precedentemente lasciati nel Mar Nero per essere invasi dal sale, viene portato sopra un lago ghiacciato in Polonia. Lasciati lì per svariato tempo, il sale degli stivali ha cominciato a bucare la superficie di ghiaccio del lago fino ad affondare nelle profondità; tutto ciò documentato da una telecamera fissa sugli stivali. Memoria collettiva e convivenza armonica sono di nuovo i temi del lavoro di Landau: « I shot the video in Poland, in the revolutionary city of Gdańsk, to create an act that touches upon 20th century collective memory: another place with shifting borders. » (Sigalit Landau, Salt Lake, 2011).

L’opera di Landau si articola come una ricerca, in costante sviluppo e movimento, come la “non-vita” del Mar Morto, per esplorare la relazione tra corpo individuale e collettivo con un paesaggio irto e difficoltoso, non solo in termini ambientali. L’ispirazione poetica che pervade tutte le opere sembra suggerire, in modo apolitico, una speranza (o invito) alla convivenza pacifica della regione.
Stella D’Argenzio