A partire dalla fondazione del Louvre, le donne, sino a quel momento relegate allo spazio privato (o domestico), hanno dato vita a una pratica curatoriale basata sulla conversazione. Dopo due secoli di sperimentazione, Suzanne Lacy nel 1979 ha ereditato i modelli femministi dei salotti ottocenteschi trasformandoli in una grande cena simultanea.
Le pratiche di network artistico, nate dalle avanguardie di inizio Novecento, si sviluppano nella seconda metà del secolo partendo dai diagrammi di Fluxus fino ad approdare alla rete informatica. Allo stesso tempo è sempre esistito un network artistico femminista che viaggiava di pari passo a quello di sistema e che era nato ancor prima di quelli sopra detti e ormai storicamente riconosciuti. La curatrice e teorica culturale Elke Krasny ha definito tale network artistico The Salon Model: un modello di curatela femminista costruitasi in parallelo allo sviluppo del museo tradizionale che è diventato il suo opposto simbolico. Dalla fondazione dell’esempio più paradigmatico di museo moderno, ovvero il Louvre di Parigi,nel XVIII secolo la moda di raggruppare oggetti provenienti da domini imperiali in spazi aperti al pubblico si sviluppò in modo esponenziale; quegli spazi erano luoghi funzionali e politici per gli stati nazionali, per formare una coscienza culturale comune e praticare quello che Carol Duncan ha definito il “rituale della cittadinanza” (Carol Ducan, Art Museums and the Ritual of Citizenship, 1991): “The perception of collective ownership helped … to confer on the citizen ‘a national character and the demeanor of a free man’”(Andrew McClellan, Inventing the Louvre. Art, Politics, and the Origins of the Modern Museum in Eighteenth-Century Paris, 1995). Questa celebrazione dell’uomo libero creava nel museo un ambiente ostile alla donna in quanto il free man, celebrato anche dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei cittadini del 1789, non era soltanto inteso in senso metaforico ma anche in senso corporeo. Il cittadino era uomo, e la cittadinanza escludeva le donne che venivano relegate alla sfera domestica. Incluse solo come spettatrici, considerate passive alla celebrazione della cultura androcentrica, le donne, maggiormente quelle appartenenti ad una classe medio-alta, istruita e benestante, cominciarono a costruire una cultura parallela, un network di salotti di conversazione culturale e non, che portarono avanti quello che Krasny definisce Conversational complex (Elke Krasny, Gathering Feminist Resisters. Curating Salons and Dinners, 2018): un modello di conoscenza, di rapporti orizzontali e opposti al sistema.
“‘Conversation’ is constitutively antithetical to the vertical axis power along which are arranged the notions of obedience, the disciplinary rotations of governmentality.” (Leela Gandhi, Affective Communities: Anticolonial Thought, Fin-de-Siècle Radicalism, and the Politics of Friendship, 2006).
Sviluppatisi in modi diversi a seconda del luogo geografico, della comunità ospitante e del periodo storico, il modello del salotto è stato applicato per tutto il ‘900 in pratiche curatoriali femministe celebrando quelli del passato o elogiando il network che avevano creato.
Una cena in tutto il mondo
Nel 1979 l’artista Judy Chicago presentò al Brooklyn Museum di New York un’installazione composta da 39 posti a sedere apparecchiati in un grande tavolo triangolare: ognuno di essi ospitava, con immagini e simboli, una donna, icona storica, artistica o mitologica dalla preistoria fino alla nascita del movimento femminista.

In occasione dell’apertura al pubblico, l’opera venne affiancata ad un happening elaborato di Suzanne Lacy, artista allieva di Judy Chicago: l’International Dinner Party. Il progetto consisteva in una cena simultanea svoltasi in contemporanea in tutto il mondo. Per le differenze di fuso orario, l’evento si protrasse per 24 ore coinvolgendo oltre 2000 donne in tutto il mondo. La testimonianza di questa cena consisteva in telegrammi, che ogni gruppo mandava all’artista durante lo svolgimento della cena, estendendo il concetto di cena comune femminista di Judy Chicago in tutto il mondo. Ad ogni nuova zona del mondo che partecipava, Lacy segnava su una grande mappa la provenienza dei telegrammi. La rete creata dall’evento e la grande mappa che narrava la vastità della sua copertura, rendevano Lacy una “feminist artist as critical cartographer” (Elke Krasny, Archive, Care, and Conversation: Suzanne Lacy’s International Dinner Party in Feminist Curatorial Thought, 2020). Utilizzare una mappa voleva dire anche servirsi dei significati simbolici ad essa annessi: utilizzata storicamente da conquistatori e esploratori, ovvero uomini occidentali, le mappe avevano narrato il potere degli uomini su altri uomini, ma anche sulle donne, risultate sempre invisibili. L’utilizzo di Lacy della mappa rappresentava un atto di riappropriazione dell’agency femminile occidentale e non, ed un sovvertimento dell’immagine del gruppo, che da tendenzialmente maschile diventava totalmente femminile.

Combattendo i Western bias
Pur essendo strettamente legata all’installazione di Chicago, l’happening di Lacy fungeva anche da correttivo per alcuni bias occidentali che l’opera della sua mentore aveva: l’invito a partecipare che era stato inviato sanciva la grandezza dell’evento e i punti che differivano dall’intento di Chicago.
Dear Sisters: We would like to ask you to participate with us in a worldwide celebration of ourselves! We are asking women in many countries to host dinner parties honoring women important to their own culture. These dinner parties, held simultaneously in March 1979, will create a network of women-acknowledging-women which will extend around the world.
Suzanne Lacy, An International Dinner Party to Celebrate Women’s Culture, Lettera di Invito, 1979

Si citava poi l’assetto dell’installazione di Chicago sottolineando la provenienza tutta occidentale delle 39 donne “sedute” al tavolo, implicitamente invitando ad ampliarla a tutto il mondo. Tutte le donne erano invitate a riconoscersi, a riconoscere la propria soggettività femminile e a celebrare la cultura femminile nel senso più ampio possibile: ogni gruppo nel telegramma poteva comunicare qualsiasi cosa, celebrare donne simbolo delle loro comunità insieme alle 39 “sedute” al tavolo. L’inclusione di tutti i telegrammi sulla grande mappa rappresentava una rottura radicale con la nozione di museo basata sia sull’estrazione forzata colonialista, sia sulla selezione che decideva cosa poteva far parte della cultura artistica e cosa no. L’attivismo femminista si ritrovava nuovamente ad intessere una rete forte, capace di riunire in una conversazione orizzontale le donne di tutto il mondo.
Stella D’Argenzio