Nell’epoca delle guerre d’indipendenza dei paesi colonizzati, molti artisti italiani hanno partecipato alla sensibilizzazione sociale delle violenze coloniali internazionali con poesie visive, collage e manifesti. Ma di quali imperi coloniali?
L’arte degli anni ’60 in Italia è stata fortemente influenzata dalle lotte anticoloniali e dai movimenti di liberazione in Africa, Asia e America Latina. Questi movimenti hanno alimentato un forte sentimento di solidarietà e impegno politico tra gli artisti italiani di quel periodo, portando alla creazione di opere che riflettono su tematiche anticoloniali e la lotta per i diritti civili. Le opere spesso rappresentavano la resistenza dei popoli colonizzati, simboleggiando l’impegno degli artisti italiani alla causa della liberazione. La Guerra in Vietnam, le guerre di indipendenza di Congo e Venezuela: tutti teatri per la critica artistica che si legava a quella politica e ideologica. In questo modo gli artisti si avvicinavano ai popoli colonizzati, la maggior parte delle volte da paesi occidentali, tra i quali però mancava (quasi) sempre l’Italia.
Un dominio scomodo
La presa di coscienza e l’ammissione di responsabilità del dominio colonialista italiano è stato, ed è tutt’ora, un processo lento che stenta a diventare parte del senso comune e che vive tutt’ora resistenze politiche, mediatiche e sociali. L’amnesia di tale processo, cominciato già agli atti costitutivi dell’Unità d’Italia del 1861, ha toccato anche gli artisti più attivi nell’espressione di idee antimperialiste e anticoloniali. L’assenza di riferimenti all’impero costituito durante il fascismo in Africa orientale sembra apparentemente in contrasto con la fervente sensibilità dimostrata da molti verso tali tematiche. Solo recentemente il fenomeno dell’amnesia culturale italiana verso la propria storia culturale è stato portato alla luce da studi critici: spesso il vittimismo di cui si è vestita l’immagine italiana ha procrastinato tale presa di coscienza come ha sintetizzato lo storico Nicola Labanca.
«Caratteristico della fine politica del colonialismo italiano fu di essere stata decisa in seguito a una sconfitta militare, subita da ‘bianchi’ a opera di ‘bianchi’» (Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, 2002). È mancata quindi, nel caso delle ex-colonie italiane, la sollevazione da parte delle popolazioni colonizzate, che in altri casi ha invece sottolineato la forte impostazione politica del lotte anticoloniali e che aveva suscitato una forte reazione anche nel mondo dell’arte, così colpito dal valore simbolico di tali lotte.
Occhi verso il mondo
Da una parte alcuni gli artisti italiani degli anni ’60 hanno manifestato la loro indignazione per le azioni in Vietnam, come nel collage di Ketty La Rocca, Bianco Napalm, del 1967 o nei manifesti di Lucia Marcucci, L’offesa e Un proverbio cinese del 1964.

Adriano Patola e Giueppe Landini invece volgono il loro sguardo vero il continente africano realizzando nel 1965 il Manifesto per il Congo, una stampa tipografica che riporta le parole degli autori: «Negro bersaglio del Congo […] il negro è l’uomo che deve morire. Ma adesso basta, cacciatore bianco, assassino venuto dal cielo, parà. Adesso basta, uomini bianchi […] dovete scendere». Le parole riportano all’iconografia utilizzata nella stampa in cui il Congo è rappresentato come un grande pesce gonfio dal cui ventre fuoriescono morti ma anche grida di libertà.

L’amnesia iconografica
La partecipazione alle lotte internazionali per l’indipendenza dei popoli storicamente colonizzati entra quindi a far parte dell’agenda artistica italiana, ma comprende allo stesso tempo quello che la professoressa Francesca Gallo ha definito “non-tematizzazione” (Francesca Gallo, Temi e vicende della decolonizzazione nelle ricerche verbovisive italiane, 2020) del colonialismo italiano negli stessi anni. Per tale tematizzazione si sarebbero dovuti aspettare i primi anni duemila, quando, a quel punto in chiave post-coloniale, il tema del dominio italiano sarebbe diventato parte della riflessione artistica. I rari casi in cui, prima di quegli anni avevano “osato” rompere quell’amnesia cominciano ad operare nel periodo della decolonizzazione, anche quando in realtà l’impero coloniale italiano non si era ancora del tutto estinto (si ricorda l’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia, AFIS, fino al 1960). Luciano Ori include nella critica al mondo dello sfruttamento coloniale anche l’Italia nell’opera Teatro Visivo del 1966.

Tra i collage, la tavola Il ritorno dei guerrieri – Scena di massa riporta importanti marchi petroliferi, insieme a guerriglieri stilizzati, rendendo lampante la convenienza economica dell’opera coloniale legata al petrolio. Inserisce anche la pubblicità dell’orzo solubile Ecco, per accentuare ancora di più la presenza italiana nello sfruttamento del continente africano.
Sono molti i motivi per cui la storia (dell’arte) ha effettuato questo “abbandono strategico” (Alessandra Ferrini, Simone Frangi, La responsabilità di un impero, 2017) della memoria coloniale italiana, ma le fondamenta di un discorso anti e post coloniali, per quanto difficili da trovare, sono state timidamente inserite in alcuni ambiti culturali per poi molto lentamente germogliato fino a diventare, all’alba del XXI secolo, un vero e proprio ambito di ricerca e lotta ideologica.
Stella D’Argenzio
A me piace questo tuo scritto, è illuminante. Grazie. Ma davvero grazie.
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