L’artista tedesca racconta a Chiasmo la sua peculiare poetica artistica popolata da creature teriomorfe.

Un animale transitorio. Così si definisce Karin Andersen, artista visuale e videomaker di origine tedesca. Diplomatasi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna nel 1990, sin da subito ha indirizzato la sua ricerca verso l’esplorazione del rapporto fra uomo e animale e la dialettica fra cultura e natura. Si è imposta sul panorama internazionale grazie alle sue opere raffiguranti esseri teriomorfi, volte a mettere in discussione la visione antropocentrica che per secoli ha caratterizzato l’approccio umano nei confronti dell’ecosistema naturale e degli organismi che lo abitano. Alla pratica artistica accompagna studi teorici, più volte apparsi in pubblicazioni del settore e riviste scientifiche. Inoltre, nel 2003 ha pubblicato il libro Animal Appeal, uno studio sul teriomorfismo in collaborazione con Roberto Marchesini. Nel novero delle sue mostre figurano spazi espositivi come il Museo Ca’ Doro (Venezia), l’Artists Space (New York), il MAMbo – Museo d’Arte Moderna (Bologna), la Marina Gisich Gallery (San Pietroburgo) e l’Haus der Kunst (Monaco di Baviera). Attualmente è rappresentata dalla Traffic Gallery (Bergamo), dalla galleria Guidi&Schoen (Genova) e dallo Studio d’arte Cannaviello (Milano). Infine, nel 2019 ha avuto l’occasione di presentare in una mostra collaterale della Biennale di Venezia il suo progetto sull’ibridazione fra esseri umani e muffe, un’estensione della sua indagine ai microrganismi. Spaziando fra una moltitudine di media, Andersen ha portato alla luce il suo mondo ibridato in cui, come riportato nel suo artist statement, “il teriomorfismo […] non rappresenta solamente la contaminazione e la cooperazione con l’alterità biologica e sociale, ma anche la necessità, l’inevitabilità e il privilegio di essere ibridi”.

GRETA CAVALLI – Buongiorno Karin, è un piacere intervistarti per il magazine Chiasmo. Presentati ai nostri lettori.
KARIN ANDERSEN: Buongiorno a tutt*, sono felice di essere qui. Sono un animale transitorio impegnato in azioni di bricolage multimediale e interdisciplinare. Sono per tre quarti tedesca, per un quarto danese e il 2% del mio DNA è quello dell’Uomo di Neanderthal. Inoltre, in misura non quantificabile, mi sono ibridata con il contesto italiano in cui vivo prevalentemente da tanti anni.
GC – L’interesse per le ibridazioni fra uomo e animale risale alla tua infanzia e in età adulta si è espresso attraverso opere popolate da esseri teriomorfi. Illustra le ragioni sottostanti a questa tua cifra stilistica.
KA: All’inizio non c’erano ragioni, ma una sorta di istinto mi portava a immaginare me e gli altri come ibridi, a metà strada tra umano e animale. Se rivedo i miei disegni da bambina, è molto raro trovare figure interamente umane: il mio mondo era popolato da mutanti, prevalentemente felini. Mi sembra banale cercare le motivazioni per questa mia impostazione nel frequente contatto con gli animali nella natura quando ero bambina, ma, per quanto riguarda quei tempi infantili, non ho altre spiegazioni. Successivamente ho acquisito più consapevolezza riguardo ai fenomeni di ibridazione zoomorfa e teriomorfa, studiando indistintamente le creature mutanti nella storia dell’arte, nel fumetto, nell’illustrazione e nel cinema. Infine, negli anni Novanta, ho avuto la fortuna di conoscere lo zooantropologo, etologo e filosofo Roberto Marchesini mentre stava iniziando a estendere le sue ricerche verso l’ambito del post human. Abbiamo visto che stavamo viaggiando nella stessa direzione su binari paralleli e da allora collaboriamo molto spesso. La sua lucida visione delle dinamiche di ibridazione della sfera umana con l’alterità animale, spesso da noi negate per convenienza egoistica di specie, ha ispirato la mia ricerca visiva in modo determinante.


GC – La tua produzione artistica è iniziata negli anni Novanta, decade che ha visto l’origine della poetica postumana. Ci sono artisti attivi in quel periodo che ti hanno ispirata?
KA: L’avvio della mia ricerca, durante e immediatamente dopo gli studi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, è stato ispirato da artisti che avevano iniziato a ipotizzare trasformazioni ibridanti già a partire dagli anni Ottanta e che ho conosciuto di persona nel mio entourage bolognese: Luigi Mastrangelo con i suoi autoritratti zoomorfi psichedelici, la biofilia visiva di Bruno Benuzzi, le trasformazioni fotografiche di Luigi Ontani. Inutile dire che, a fine anni Novanta, sono stata molto affascinata anche da Matthew Barney e Jane Alexander. Molte delle mie ispirazioni sono comunque precedenti all’era del post human: le poetiche della trasformazione nel cinema, nel fumetto e nei visuals della musica sono riscontrabili da sempre. Sono, ovviamente, particolarmente interessata alle contaminazioni spiccatamente post human che si sono sviluppate anche in quegli ambiti negli anni Novanta. Un’artista – definirla solo musicista o cantante sarebbe riduttivo – che a mio avviso è stata molto importante per la diffusione del paradigma postumano è Björk: sin dagli anni Novanta non ha mai smesso di elaborare la sua idea di interconnessione tra umano e alterità non umana, affiancata da eccellenti creatori di visuals come Chris Cunningham, Paul White e Andrew Thomas Huang.
GC – Spesso hai proposto l’ibridazione dell’essere umano con organismi percepiti comunemente come disgustosi e infestanti, ad esempio insetti e muffe. Perché hai scelto questi elementi?
KA: Li ho scelti per mettere in scena il confronto con l’alterità in modo estremo e sottolineare che i nostri canoni estetici e percettivi non sono universalmente validi, non sono gli unici possibili. L’anatomia umana risulta schifosa agli occhi degli insetti? Non possiamo saperlo. Abbiamo, inoltre, solo una vaga idea di come un insetto percepisca la realtà coi suoi apparati sensoriali: a cominciare dalla visione che, da quel che si sa, è meno definita della nostra, ma ha tempi di trasmissione degli impulsi decisamente più rapidi. Un nostro film a 25 fotogrammi al secondo probabilmente risulterebbe uno noioso slideshow per lui. Immaginarmi mescolata a una tale diversità mi dava l’idea di un salto affascinante nell’ignoto e di una sorta di ginnastica mentale per allargare gli orizzonti. Con le muffe, invece, l’operazione di immedesimazione diventa difficile, uscendo dal regno animalia verso costellazioni vitali totalmente aliene a noi mammiferi. Nel loro caso mi interessa l’incredibile varietà di forme e il meraviglioso caos prodotto dalla loro azione: trasformano l’identità delle figure che predispongono alla loro azione in un processo collettivo. Inoltre, mi interessava l’idea di delegare, di diventare spettatore, di evidenziare l’apporto dell’alterità nella formazione delle idee.


GC – Nella serie Studi di fisiognomica amorale hai realizzato ritratti di esseri teriomorfi, ribaltando l’accezione negativa che la fisiognomica ottocentesca attribuiva ai volti con caratteristiche “animalesche”. Qual è il significato di questo progetto?
KA: Il progetto è pensato come un commento alle connotazioni tradizionali dei personaggi zoomorfi nel nostro immaginario: gli esseri umani con sembianze animali non sono quasi mai delle figure con una connotazione concettualmente neutra, sono in genere raffigurati come mostri malvagi, primitivi, succubi a istinti e pulsioni selvagge oppure, d’altra parte, idoli soprannaturali. Della “corda annodata fra animale e superuomo” ipotizzata da Friedrich Nietzsche, interessano quasi sempre solo gli estremi. Come hai osservato anche tu, la tendenza a considerare l’iconografia ibrida in termini moralizzanti è riscontrabile persino in certi ambiti (pseudo)scientifici: Cesare Lombroso (1835 – 1909), uno dei più noti esperti di fisiognomica, pretendeva di rilevare l’inclinazione al delitto in soggetti umani dai tratti somatici zoomorfi. Vorrei definire un concetto diverso della dialettica umano-animale, al di là delle connotazioni morali polarizzate: la diversità come componente normale, positiva ed urgentemente necessaria del nostro paesaggio biologico e sociale.
GC – Oltre ad avere sperimentato la simbiosi uomo-animale in chiave ecologica, hai reinterpretato degli ibridi derivati dalla letteratura fiabesca e fantastica. Cosa ti ha spinta a indagare queste forme di alterità?
KA: Mi è sempre piaciuto confrontarmi con le narrazioni riguardanti la figurazione animale e le metamorfosi, di cui le fiabe e il fantasy sono piene. Sicuramente c’è anche una componente di imprinting giovanile, da bambina a scuola e a casa mi facevano leggere le favole dei fratelli Grimm e quelle del mio omonimo [n.d.R. Hans Christian Andersen, scrittore de La Sirenetta, Il brutto anatroccolo, La piccola fiammiferaia ecc.] – fino a una certa età credevo che quello scrittore fosse un mio nonno danese. Inoltre, mi interessano gli archetipi e stereotipi narrativi della cultura popolare e ciò che di volta in volta possono raccontare sul rapporto di una determinata società con l’animalità.


GC – Nella tua recente installazione interattiva Kysymys hai rielaborato The artist is present, famosa performance di Marina Abramovic. Non è la prima volta che rivisiti celebri opere della storia dell’arte inserendovi creature teriomorfe. Cosa intendi comunicare con queste operazioni?
KA: Ho fatto diverse cover version di opere iconiche della storia dell’arte, ma non c’è un filo conduttore concettuale preciso. Alcune sono esercizi di immedesimazione, altre semplici attualizzazioni di contesto. Quelle riguardanti dipinti antichi spesso si basano su un meccanismo di rovesciamento delle iconografie per ipotizzare narrazioni differenti dal percorso tradizionale: ad esempio, nella reinterpretazione del San Giorgio di Raffaello faccio vincere il drago o nel remake della Madonna col Bambino di Carlo Crivelli è il bimbo a sorreggere la madre in braccio. Con queste operazioni non vorrei in nessun modo sminuire o contestare il messaggio originale delle opere nel loro contesto storico. La situazione raccontata diventa, invece, punto di partenza per pormi delle domande sul mondo attuale e sul mio sistema di valori, domande che vorrei condividere. Devo ammettere che, pur nelle mie migliori intenzioni di rendere il più sincero e ammirato omaggio ai capolavori di partenza, la mia è un’operazione da parassita: mi servo spudoratamente di una matrice più grande di me per dare forza al mio segnale di trasmissione poetico. A differenza dai parassiti in natura, non reco alcun danno alle opere di cui mi nutro – almeno spero. Per quanto riguarda la menzionata installazione Kysymys, non so se Marina Abramovic gradirebbe il mio uso della costellazione “sedersi di fronte e reggere lo sguardo reciproco” da lei adoperata in modo così efficace. Probabilmente anche lei è debitrice a qualcuno o qualcosa che ha visto prima di concepire The Artist is Present. Questo per dire che, a mio avviso, nessun’opera nasce in totale autonomia, nessun artista – soprattutto al giorno d’oggi, in cui i contenuti creativi abbondano ovunque grazie alla diffusione digitale – può vantare la totale authorship delle sue opere. Ci piaccia o meno, siamo tutti ibridi e lo sono anche i nostri lavori artistici.
Greta Cavalli