Globalizzazione, decolonizzazione e storie globali e locali sono i temi centrali della produzione artistica di Ibrahim Mahama, artista ghanese classe 1987: le sue opere indagano in particolare l’importanza della storia dei materiali e di come questi trasmettano anche una specifica memoria, all’interno di un’operazione artistica con una carica sociale e politica incisiva.

Globalizzazione, decolonizzazione e storie globali e locali da qualche decennio a questa parte sono temi sempre più caldi e vengono affrontati da punti di vista differenti da artisti, sociologi, studiosi e figure di varia rilevanza. Tali tematiche si ritrovano, correlate e interagenti tra loro, nella produzione artistica di Ibrahim Mahama, artista ghanese classe 1987, figlio del politico John Mahama, presidente del Ghana dal 2012 al 2017; Mahama ha assunto su di sé l’impegno politico del padre e lo ha portato avanti attraverso la propria pratica artistica, giungendo a esporre in tutto il mondo, all’interno di grandi manifestazioni quali la 56ª Biennale di Venezia nel 2015 e documenta 14 ad Atene nel 2017, e a essere insignito di numerosi riconoscimenti, tra cui il primo premio UNESCO per le arti visive nel 2019 e il Premio Pino Pascali 2021.
Nel suo percorso universitario di formazione in ambito artistico, svolto presso la Kwame Nkrumah University of Science and Technology di Kumasi, Mahama ha appreso in particolare l’importanza della storia dei materiali e di come questi possono trasmettere anche una specifica memoria. Il marchio di fabbrica di Mahama è così diventato il recupero e l’utilizzo di materiali di scarto, per realizzare collage o opere monumentali. Le opere più note sono le installazioni consistenti nell’impacchettare edifici con sacchi di juta di recupero; i sacchi, fabbricati in India e Bangladesh e importati in Africa per il trasporto delle merci (prevalentemente cacao), sono eretti a simbolo della forza lavoro che garantisce la circolazione internazionale delle merci, delle contraddizioni insite in questo sistema, ma anche della centralità dell’Africa nel commercio globale. L’artista racconta che «Il sacco di juta racconta delle mani che l’hanno sollevato, come dei prodotti che ha portato con sé, tra porti, magazzini, mercati e città. Le condizioni delle persone vi restano imprigionate. E lo stesso accade ai luoghi che attraversa».

Strappati, rattoppati e marcati con segni e numeri diventano arazzi che raccontano le criticità del mondo di oggi, garze che tamponano le ferite della storia, simbolo di conflitti e drammi che da secoli si consumano all’ombra dell’economia globale, visti come male necessario per il mantenimento di questa economia. Molte installazioni avvolgono edifici abbandonati e in rovina, pezzi di storia ricuciti e recuperati in una nuova storia di rinascita. La iuta si carica così di valore politico e sociale, nel suo processo di valorizzazione come materiale artistico.
All’interno di questa rinascita, ha un ruolo centrale la comunità locale: artigiani e lavoratori locali che cuciono insieme i sacchi collaborano strettamente tra loro e con l’artista, in modo da rendere sempre più saldo il legame tra l’opera d’arte e la comunità di riferimento, facendo sì che l’opera non risulti qualcosa di calato dall’alto, quanto piuttosto qualcosa di sentito e rappresentativo della comunità, simbolo di un’apertura e di un dialogo tra persone e gruppi diversi. Quella di Mahama può essere intesa come un’ulteriore affermazione dell’impatto che l’arte può – e deve – avere sulla società, creando nuove connessioni tra persone, nuovi modi di intendere e vivere la comunità, di prendersi cura dei propri spazi e di costruire e ricucire la propria storia. Mahama si muove, dunque, sul doppio binario della sostenibilità ambientale e della sostenibilità sociale e all’interno del suo lavoro e della sua ricerca sono centrali i progetti ad alta valenza sociale.
L’artista opera e risiede in Ghana, dove acquista e ristruttura edifici abbandonati, decadenti rappresentanti di un passato coloniale violento; Mahama li fa rinascere, convertendoli in luoghi culturali, espositivi e di formazione per le comunità del luogo. A Tamale, capitale della regione settentrionale del Paese, nel 2019 ha fondato il Savannah Center for Contemporary Art (SCCA), centro di ricerca, luogo espositivo e residenza per artisti; nel 2020, ha aperto un complesso di studi, Red Clay a Janna Kpenn; nel 2021, ha infine recuperato un edificio industriale a Tamale, convertito nel centro artistico di Nkrumah Volini: Nkruma è il nome del primo leader post-coloniale del Ghana e volini (‘dentro il buco’) è un riferimento alla fama sinistra del luogo. Tutte queste istituzioni rappresentano la concretizzazione dell’impegno di Mahama nello sviluppo e nel sostegno della scena dell’arte contemporanea del Paese.
Nel Centro Nkrumah Volimi, Mahama, seguendo l’imperativo della sostenibilità e del rispetto della sua terra, ha mantenuto la fauna che si è stanziata nel silo durante il suo abbandono: in particolare sono state tutelate le colonie di pipistrelli, soggetti prediletti da Mahama in alcuni collage, dove convivono a testa in giù con mappe dell’epoca coloniale, banconote, libri mastri. Mahama recupera la storia del proprio Paese e la mette in dialogo con la propria formazione da pittore, continuando a lavorare con materiali e una superficie bidimensionale, rivisitando il concetto di tela e di dipinto, in modo che la sua produzione prenda forme diverse, tra collage, installazioni e opere pittoriche, all’interno di un processo in moto continuo, che cambia luoghi e modalità espressive.
L’arte parla a tutti e la ricchezza deriva dal fatto che ciascuno la interpreta a modo suo, sulla base di prospettive e conoscenze divergenti. Per un osservatore avvezzo alla storia dell’arte contemporanea europea, potrebbero essere immediati i collegamenti a due grandi nomi, quello di Christo e quello di Burri: a modalità artistiche simili, nell’opera di Mahama si aggiunge una carica politica in senso prevalentemente postcoloniale; la sua opera si inserisce dunque all’interno di una genealogia articolata e dà un nuovo imput in relazione a tematiche oggi più che mai scottanti. La speranza dell’artista è che i residui di questi materiali, sporchi e in decadimento, ma portatori di luce, possano condurci verso nuovi corsi della storia.
Tale oscillare tra passato, presente e futuro, emerge anche dalla scelta dell’artista di datare le sue opere facendo riferimento a un arco temporale piuttosto ampio: secondo l’artista, ridurre la vita di un materiale o un soggetto alla data in cui l’artista è entrato in contatto con esso è sintomo di un atteggiamento arrogante nei confronti della storia. In questo senso, Mahama ha deciso di datare, per esempio, l’opera Non-Orientable Nkansa dagli anni Trenta del Novecento fino al 2030: si guarda al momento di produzione dei materiali, al momento in cui l’artista lavora con essi, e alla vita che avranno oltre questa operazione artistica, nelle mani degli spettatori.

Il riconoscimento di Mahama nel mondo dell’arte contemporanea continua: l’artista appare tra i nomi che saranno in mostra alla 18a Biennale di Architettura di Venezia (20 maggio-26 novembre 2023), dal titolo Il Laboratorio del Futuro e incentrata prevalentemente sul continente africano e sulle sfide del decoloniale e del postcoloniale. Inoltre, Mahama è stato nominato direttore della 35a Biennale di Arti Grafiche di Lubiana (15 settembre 2023-14 gennaio 2024), secondo l’artista una grande occasione per recuperare connessioni tra Paesi e ricostruire pezzi di storia mai raccontati.
Costanza Mazzucchelli