
In Storici, teorici e critici delle arti figurative d’Italia dal 1800 al 1940 (1946) Sergio S. Lodovici, per introdurre la figura di Mary Pittaluga, dichiarò come questa fosse «una tra le menti più acute» che si occuparono d’arte in Italia nel Novecento, delineando le sue qualità di studiosa dall’intuito esercitatissimo. Le brillanti abilità di Pittaluga furono colte non solo dai suoi docenti fin dagli anni universitari torinesi, prima da Lionello Venturi e poi a Roma da Adolfo Venturi, ma la studiosa riuscì a ottenere anche il rispetto e la stima di uno dei più noti conoscitori del Novecento: Bernard Berenson, che la ritenne superiore a tutti i suoi colleghi italiani.
Mary Pittaluga, conoscitrice e storica dell’arte del Rinascimento italiano, nacque a Milano in una famiglia di origine austriaca il 2 dicembre 1891. Fu una studiosa dalla mente indipendente e dal giudizio acuto che assunse inizialmente una posizione aderente alla pura visibilità, ovvero la teoria esposta nella seconda metà dell’Ottocento da Konrad Fiedler che si contrappone alla concezione platonica dell’arte come imitazione della natura, per intendere piuttosto l’arte una realtà superiore, formale e soggettiva prodotta dallo spirito dell’artista. L’esperienza filosofica successiva e un particolare interesse per i problemi storiografici la portarono a correggere il suo approccio fino a dargli – come precisa Lodovici – «un tono sempre più largamente umano». Riconsiderò la sua posizione sulla pura visibilità in quanto le riconobbe una certa debolezza filosofica, risolvibile trasformando «ogni constatazione formale […] in constatazione del sentimento e della forza lirica dell’artista» (S. Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative d’Italia dal 1800 al 1940, 1946).
Nel suo metodo non mancò mai l’aderenza alle opere d’arte, all’osservazione dal vivo in grado di rivelare i colori, le peculiarità stilistiche e le tecniche degli artisti. Fu con il viaggio di perfezionamento che ebbe la possibilità di vedere dal vero le opere d’arte protagoniste dei suoi studi e, grazie al quale, visitò le città europee più importanti occupandosi, nel frattempo, anche di una lunga ricerca d’archivio sugli incisori italiani.
Gli studi e la ricerca si legarono all’insegnamento nei licei dal 1923, quando Pittaluga ottenne la nomina presso il Liceo Dante Alighieri di Firenze. Mossa dalla volontà di fare concretamente qualcosa per la storia dell’arte, l’incarico presso il Liceo di Firenze fu da lei considerato un primo e reale passo in quella direzione. Per tale ragione, Pittaluga si batté burocraticamente per ottenere gli strumenti adeguati all’ insegnamento e per permettere il riconoscimento della disciplina, ancora da molti sottovalutata e relegata ai margini delle giornate scolastiche, proprio perché ritenuta materia secondaria e di diletto. Inoltre, dal 1940 al 1944, pubblicò manuali per i licei – con un ricco apparato illustrativo aggiornato negli anni a seguire – che illustravano l’evoluzione della storia dell’arte dalla civiltà minoica al Ventesimo secolo. A fine anni Trenta, per questa sua attenzione a uno sviluppo concreto della storia dell’arte, Pittaluga fu incaricata dal Ministero dell’Educazione Nazionale di stilare un bilancio sulla manualistica di storia dell’arte pubblicata in Italia tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento, una relazione inserita in Dalla Riforma Gentile alla Carta della Scuola del 1941.
Nel 1927 Pittaluga fu tra le prime studiose in Italia a ottenere la libera docenza universitaria e a insegnare presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze.
Nel 1925, nello stesso anno del diploma alla Scuola di Perfezionamento, Pittaluga pubblicò una monografia su Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, nella quale la studiosa aderì in modo assoluto alla pura visibilità per eseguire un’analisi dell’artista basandosi sui suoi valori formali, ma dei quali fu sottintesa la potenza spirituale. Questo scritto si impose sullo scenario degli studi italiani su Tintoretto, seguito poi nel 1928 da quello di Ugo Ojetti. Per questo primato e anche per gli intenti critici e filologici della studiosa, la monografia riscosse un certo successo sia in Italia che all’estero. La sola nota critica di questo lavoro è la sua visibile incompletezza dovuta a un metodo riflessivo che distacca la figura artistica da quella dell’essere umano, un limite che Pittaluga superò nel volume su L’Incisione italiana nel Cinquecento del 1928. Questo fu un lavoro più ampio rispetto al precedente, in cui analizzò gli incisori italiani dalla seconda metà del Quattrocento fino ai primi anni del Seicento, ma nel quale non riuscì a raggiungere un pieno rinnovamento di posizione critica.
L’esito editoriale più compiuto è stato Masaccio, un volume del 1935 in cui l’aspetto della pura visibilità è stato affiancato dai valori formali che le permisero di accedere alla sfera personale e umana dell’artista e di conferire coerenza allo studio. Pittaluga, attraverso l’analisi del pensiero e del contesto quattrocentesco fiorentino, si protese verso l’animo dell’artista con la volontà di comprenderlo e chiarirlo.
Per Mary Pittaluga la ricerca non fu solo una grande aspirazione, ma una passione alla quale si dedicò fino agli ultimi anni della sua vita. Dal suo ingresso alla Scuola di perfezionamento a Roma la sua visione della storia dell’arte non fu mai gerarchica, sapendo per questo valorizzare anche tecniche artistiche ritenute minori – come l’incisione e l’acquaforte – in scritti pubblicati dalla fine degli anni Venti. Al tempo stesso, dal 1950 la studiosa non rinunciò all’approfondimento dell’arte italiana più recente, quella del XIX secolo, che fu anche il motivo del suo anticipato pensionamento.
Elena Barison