“E LE ITALIANE?” INTERVISTA A RAFFAELLA PERNA

Protagoniste della conversazione sono state le artiste, le storiche dell’arte, le attiviste militanti e le curatrici italiane che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, cavalcando l’onda delle prime battaglie femministe in Italia, hanno cambiato le sorti del dibattito sull’arte contemporanea nel nostro paese.

MARIANNA REGGIANI – In Italia, rispetto ad altri paesi, il processo di inclusione delle donne all’interno del sistema dell’arte è stato più lento e difficile. Quali sono state le figure che hanno gettato le basi per un percorso di rivendicazione di uno spazio prettamente maschile? 

RAFFAELLA PERNA: Il panorama italiano è stato sicuramente contrassegnato dalla figura molto originale di Carla Lonzi, la quale decise di dedicarsi completamente alla militanza, abbandonando il percorso di critica e curatela artistica. Un altro tipo di approccio è stato seguito da figure come Anne-Marie Sauzeau che, concentratasi per anni sullo studio e promozione dell’opera di Alighiero Boetti, negli anni Settanta scrisse una serie di articoli sulle specificità delle artiste donne all’interno del sistema dell’arte. Ci sono poi figure come quella di Romana Loda che, da gallerista, ha promosso a livello curatoriale l’attività di molte artiste italiane − in particolare, ha seguito da vicino l’opera di Ketty la Rocca − mettendole in connessione con quelle internazionali. Anche Mirella Bentivoglio, artista e poetessa visiva, ha avuto un ruolo importante nella promozione del lavoro delle poetesse visive organizzando quella che oggi è una mostra molto citata, Materializzazione del linguaggio del 1978, all’interno della Biennale di Venezia, che passò per molti anni quasi sotto silenzio.

Mirella Bentivoglio, Ti amo, 1971, serigrafia su cartone. Credits Fondazione Bonotto
Mirella Bentivoglio, Divano, 1973, collage su cuscino di divano in teca di plexiglas. Credits Artuu

MR – La mostra Il Soggetto Imprevisto, 1978 Arte e femminismo in Italia, curata da lei e Marco Scotini nel 2019, è stata la prima mostra nel nostro paese a fare un punto approfondito della situazione. Essa individua nell’anno 1978 “un momento nevralgico nella storia dell’arte italiana del XX secolo durante il quale la diffusione del pensiero femminista ha prodotto una nuova consapevolezza critica e autocritica” (https://flash—art.it/2019/07/arte-e-femminismo-in-italia-ragioni-di-una-mostra/) : oltre all’approvazione alla Camera della legge 194, e oltre alla mostra di Bentivoglio da lei appena menzionata, cos’altro è successo nel nostro paese quell’anno? 

RP: È stato scelto come anno spartiacque perché, da un lato, si aprivano e maturavano alcune questioni – la stessa mostra di Bentivoglio nacque dopo un’esperienza curatoriale quasi decennale che in quel momento giungeva all’acme e da un altro alcune esperienze si chiudevano, come quella di Romana Loda, la quale tornò ad abbracciare le sperimentazioni maschili dopo essersi a lungo dedicata in maniera esclusiva alla produzione delle donne. Inoltre è un anno cardine per l’Italia in generale perché l’assassinio di Aldo Moro costituì un cambiamento epocale rispetto alle urgenze del movimento del ’77. 

Il soggetto imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, FM centro per l’arte contemporanea, Milano, 2019, exhibition view. Credits Flashart.

MR – Di recente ha fatto molto discutere il cosiddetto “caso Ferragni” a Sanremo e il suo abito Dior: la scritta prelevata dall’opera dello street artist bolognese Cicatrici nere è stata rivendicata dallo stesso, il quale ha replicato, in un video postato su Instagram, “Artivismo, non merce”. Secondo lei è possibile trovare un punto di incontro tra queste due realtà, ovvero tra il femminismo cosiddetto “mainstream” e un femminismo invece più radicale? 

RP: Non mi piace parlare di femminismo “mainstream” perché implica un’accezione negativa, quasi fosse un femminismo di serie B. Non credo ci sia una sola via al femminismo, ci possono essere anzi varie possibilità anche in contesti legati alla cultura messa-mediatica, che però vanno guardate con più attenzione. Prima di tutto, la scritta in questione è stata scelta dal duo Claire Fontaine, che lavora usando anche immagini o oggetti prelevati, rifacendosi a una tipologia di arte ampiamente accettata. Naturalmente è bene che l’artista abbia rivendicato la paternità dell’opera, ma non riesco a valutare negativamente il fatto che la scritta sia stata inserita in un abito Dior in un contesto come quello di Sanremo. La moda è un campo molto complesso che non può essere ridotto a mera mercificazione o compravendita di oggetti: investe la creatività, il nostro modo di vivere. Francamente trovo importante che si arrivi a discutere di questi temi, anche in maniera polemica, a livello di spettacoli popolari che hanno una presa fortissima sul nostro paese. Detto questo, non mi aspetto che la rivoluzione venga fatta da grandi compagnie o maison di moda, quanto piuttosto che questa avvenga grazie ad un’azione concreta da parte di chi si occupa di politica. 

MR – Parliamo di linguaggio: nelle sue Scritture Viventi Tomaso Binga utilizza il proprio corpo per creare un nuovo codice e sostituirlo a quello verbale convenzionale, strumento del potere patriarcale che, a suo modo, contribuisce all’emarginazione femminile. Questa sorta di “questione linguistica” è una lotta che va avanti ancora oggi e di cui si sono fatti portavoce anche numerosi professionisti del mondo editoriale, scrittori e scrittrici ma anche case editrici come Tlon e Treccani. Quanto potere ha l’arte, figurativa e non, nel tentativo di riscrittura di un linguaggio che tenga conto, per davvero, dell’esistenza e dei vissuti delle donne? 

RP: Certamente è una questione controversa perché è difficile far accettare a largo raggio determinati cambiamenti. Spesso la questione si liquida, da un lato dicendo che “il linguaggio non è la sostanza”, e dal mio punto di vista questo è ridicolo perché il linguaggio è lo strumento che abbiamo per comunicare, è attraverso le parole che plasmiamo la realtà. Da un altro lato si tende ad arroccarsi su una purezza della lingua, e anche questo trova poca conferma nella storia, quindi penso che trovare un linguaggio veramente inclusivo sia una questione cruciale, sia attraverso le parole sia attraverso le immagini di Tomaso Binga, come di tante altre artiste che hanno sottolineato il sessismo implicito nel linguaggio visivo e verbale. Tante volte, anche chi riconosce un valore in questa trasformazione del linguaggio fatica ad adottarla nella quotidianità, è una difficoltà che a volte riscontro anche io. 

Tomaso Binga, Scrittura vivente, 1976, stampa su tessuto blockout. Credits Museo Novecento, Firenze

MR – Con l’ingresso delle donne nell’ambito della fotografia e del fotoreportage, di cui lei scrive nel catalogo L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015, come è cambiata la concezione e il trattamento del corpo femminile? In altre parole qual è stata la particolarità di quell’”altro sguardo”? 

RP: È difficile riconoscere uno sguardo specifico femminile, perché le donne non ne hanno uno unico, al contrario esistono molte differenze e non si può utilizzare un’unica macrocategoria. Tuttavia è vero che le donne hanno avuto culturalmente una posizione assai diversa da quella degli uomini nel nostro paese, e queste differenze hanno fatto sì che ci fosse da parte loro un’attenzione su alcuni temi, in particolare quello della corporeità, molto più forte. Se guardiamo figure come Clementina Hawarden oppure Claude Cahun ci rendiamo conto che lavorare sulla propria identità e sul proprio corpo, se per alcune inizialmente poteva essere una scelta legata ad una necessità di vicinanza all’ambiente domestico, poi è stata anche una straordinaria possibilità di ripartire dalla propria esperienza fisica per mettere in moto una fotografia in grado di interrogarsi sulle dinamiche relazionali. Questo è sicuramente il filone di ricerca più forte.

Claude Cahun, Que me veux-tu?, 1928. Credits il Sole 24 ore

MR – C’è stato un aspetto particolare che l’ha spinta a dedicare una parte così importante dei suoi studi e del suo lavoro al tema Arte e Femminismi?

RP: Sicuramente è stata fondamentale la possibilità che ho avuto di studiare con una professoressa che è stata militante e femminista negli anni Settanta, Silvia Bordini, che mi ha fatto conoscere i testi di Lea Vergine, altra figura importantissima. Poi la mia scelta di concentrarmi sul contesto italiano nasce nel 2010, quando ho visto la bellissima mostra Donna: avanguardia femminista negli anni ’70 alla Galleria Nazionale di Roma in collaborazione con la Sammlung Verbund di Vienna, dove però erano esposte tutte artiste straniere a parte Ketty la Rocca. E a quel punto mi sono chiesta “E le italiane?”.

Donna avanguardia femminista negli anni ’70, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 2010, exhibition view. Credits Archivio digitale della Galleria Nazionale.

Marianna Reggiani

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