“Quando esco voglio essere libera, non coraggiosa”. Così recita uno dei collages che le femministe di Marsiglia hanno affisso per la città, dando voce così, mediante uno degli espedienti più utilizzati dal collettivo, ad uno dei pensieri che preoccupano maggiormente le donne. L’idea di uscire di casa è infatti fortemente connessa con il concetto di libertà: basta varcare la soglia per trovarsi davanti una serie sconfinata di possibilità tramite le quali definiamo noi stessi; è libertà il poter scegliere tra lo spostarsi a piedi o con l’autobus, lo svoltare a destra o a sinistra, il camminare fin dall’altra parte della città per raggiungere quel bar che fa il caffè esattamente come piace a te. Il coraggio in tutte queste scelte non dovrebbe avere voce in capitolo: prendi l’autobus perché lo trovi più comodo, svolti a sinistra perché ci metti meno ad arrivare a destinazione e magari decidi anche di raggiungere quel bar perché al tuo caffè preferito oggi non vuoi proprio rinunciare. Sono io a decidere per me stessa. Cosa succede però quando tutte queste possibilità smettono di essere tali, vincolandoti a ragionare sulle decisioni non solo in virtù del tempo che hai a disposizione, ma anche dei rischi che corri? Ciò che succede è che non siamo più noi donne ad avere il controllo dei nostri piedi: decidiamo, quindi,di prendere l’autobus perché è più sicuro, perché c’è più gente; svoltiamo a sinistra, anche se magari allunghiamo un po’, ma quella è una strada illuminata e con tanti locali aperti fino a tardi; rivalutiamo il bar che si trova a pochi minuti da casa nostra, il cui caffè certo non è paragonabile a quello che tanto desideravamo. In questo modo diminuisce la libertà personale, ma è un prezzo che si può pagare per evitare qualche guaio. “Ma”, “ma”, “ma”. Quanti “ma” dobbiamo dire, a quanti compromessi dobbiamo scendere per evitare che nessuno leda il rispetto che meriteremmo già solo in quanto membri della razza umana?
Un video di “Hollaback!”, organizzazione no-profit, spiega esattamente il motivo per cui molte donne non si sentono libere di muoversi come vogliono. Cinque anni fa Robert Bliss ha preso parte a questo progetto, assieme all’attrice Shoshanna B. Roberts, girando un video nel quale lei avrebbe camminato per 10 ore per le strade di New York, attraversando i quartieri di Midtown, Soho, Harlem, Brooklyn Bridge e South Ferry, e registrato, grazie a una telecamera nascosta in una maglietta, indossata dallo stesso Robert Bliss, tutto ciò che le succedeva. Ciò che è emerso dopo queste 10 ore di camminata è stato che la ragazza ha ricevuto ben centotto molestie da parte dei passanti.

Per avvicinarci all’Italia, in un video realizzato per Fanpage.it sempre cinque anni fa, una ragazza ha tentato lo stesso esperimento a Napoli ed anche nella capitale partenopea i risultati non sono di quelli che fanno sperare nel genere umano.

Il fenomeno derivato dalla pratica di fischiare o fare apprezzamenti alle ragazze per strada prende il nome di “Cat call” ed ha un’origine davvero inquietante: si riaggancia ai suoni scomposti che si emettono per chiamare un gatto, il “micio, micio” con cui si attira il nostro amico felino. Senza nulla togliere ai gatti, ma non è questo quello che mi aspetto mentre cammino da sola per la mia città, a prescindere da quale essa sia e dai quartieri che attraverso. Questo accade ovunque e la conferma ci viene ancora una volta dal mondo digitale: ad oggi sono più di 200 gli account sparsi per la Terra ed associati al progetto “Catcalls of New York”, fondato nel 2016 da Sophie Sandberg con l’hasthtag #StopStreetHarassment, secondo il termine in cui nei paesi anglofoni vengono definite le molestie subite per la strada. Nel caso italiano, la prima pagina associata è stata aperta nel 2018 a Milano. Il progetto si propone di scrivere sull’asfalto del marciapiede, veicolo ora di insidie e non di libertà, con dei gessetti colorati la frase con cui la testimone è stata approcciata; il risultato però è ben diverso dal disegno di un bambino e l’effetto che si vuole provocare è proprio lo shock di leggere simili molestie scritte con quegli strumenti appartenenti per lo più al periodo innocente e spensierato, libero, dell’infanzia.
– Come il mondo sta affrontando il Catcalling e perché non è ancora sufficiente
Nein heisst nein, “No significa no”. Questo lo slogan che ha accompagnato il varo della nuova legislazione in Germania, in seguito a quanto successo nella notte tra giovedì 31 dicembre e venerdì 1 gennaio 2016 nelle principali città tedesche, con aggressioni rivolte a quasi 100 donne nella sola Colonia.

Proposta al Bundestag in data 28 aprile sulla scia del Yes means yes del 2014 in California contro la violenza sessuale all’interno dei campus universitari, che già aveva quindi posto l’accento sulla necessità di un consenso verbale che legittimasse l’atto, è una modifica della sezione 177 del codice penale del 1998, per cui un atto di violenza era considerato stupro quando il tentativo di difesa della vittima era suffragato da prove dimostrabili in tribunale. Ora, provate ad immaginare di essere in un’aula a testimoniare per la ratifica del vostro stesso stupro, ma di dover portare le prove della violenza che avete subito e che vi ha inflitto ferite indelebili. Come ci si sente? La riforma è tesa a convertire le forme di violenza avvenute senza il consenso in stupro. Fantastico, si penserà. In parte: ancora una volta, per valutare quanto avviene, occorre fare affidamento sul comportamento di chi subisce e non dell’aggressore e le molestie come i palpeggiamenti non sono menzionate dal testo.
Nel 2013 in Brasile è stata lanciata la campagna Chega de fiu fiu, “Basta fischi”. Ad occuparsene, la giornalista Juliana de Faria Kenski, che dalla sua piattaforma Think Olga ha creato una mappa delle zone più pericolose delle maggiori città, basandosi su denunce geolocalizzate di utenti che hanno subito molestie; ancora una volta, quella di raggiungere il bar preferito dall’altra parte della città non è una scelta libera.
Mentre il novembre del 2018 ha dimostrato come la giustizia irlandese si dondoli sul sottile filo di un tanga, assolvendo lo stupratore di Elizabeth O’Connell perché la ragazza indossava un perizoma in pizzo, l’Italia affronta l’argomento includendo le molestie nel penale, con articoli come il 660 o il 609 bis. Il primo indica come molestatore chiunque in un luogo pubblico disturbi la libertà altrui con invadenza, condannandolo alla reclusione fino a sei mesi o a pagare una multa fino a 516 euro; il secondo provvedimento è invece relativo nello specifico alla violenza sessuale e prevede la reclusione da non meno di sei a non più di dodici anni. Nella teoria quindi il nostro Paese si applica discretamente, ma la pratica, che si presenta qui sotto forma di un sondaggio ISTAT del 2018, denuncia che a subire molestie sono state 8 milioni 816 mila donne di età variabile tra 14 e 65 anni.
Sapere che il mondo ha iniziato a notare quello che accade ogni giorno in tutte le strade può sembrare rassicurante, ma nulla funzionerà davvero se per correre ai rimedi si presenta alla Camera una proposta di legge per l’attivazione di corsi di arti marziali e di difesa personale per le donne, come la 1838 di Matilde Siracusano dell’8 maggio 2019, e non si educa sin da bambini che ognuno è libero nelle proprie scarpe e che qualunque cosa si indossi e ovunque si vada, sì significa sì ma, soprattutto, no significa no.

Sara Rossi