In qualunque forma si presenti, l’arte è la rappresentazione del nostro tempo ed è spesso ciò che ci aiuta ad esorcizzare i traumi del nostro passato, i dubbi sul nostro presente e le paure per il nostro futuro. Tra pandemie globali, crisi climatiche, traumi transgenerazionali e guerre brutali, la nostra generazione cerca sempre più disperatamente di trovare un punto d’equilibrio in tutto questo caos, quasi a voler ricavarsi un momento – seppur breve – di sollievo, in cui poter respirare e iniziare a guarire.
Per Veronika Dräxler, autrice ed artista interdisciplinare con sede a Berlino, l’arte è soprattutto questo: un mezzo. Un mezzo che ci aiuta a curare le ferite, a prendere consapevolezza, a comprendere la società che ci circonda e a riconoscere noi stessi in essa. Tramite un profondo ritualismo che spesso si traduce in performance dalle mille sfaccettature, quest’artista riesce a comunicarci – e a comunicare in primis a se stessa – una incredibile genuinità creativa.
In poche parole, Dräxler ci fa dono del significato più vero, e primitivo, dell’arte: quello che cura.


EVA CHEMELLO – Ci sono tre termini che subito appaiono sullo schermo del tuo sito internet: identità digitale, riappropriazione e post colonialismo. Sono concetti di cui sentiamo parlare sempre più spesso e ancora di più nel mondo dell’arte. Puoi raccontarci cosa significano per te e come è iniziata, in tal senso, la tua ricerca artistica?
VERONIKA DRÄXLER: Il termine identità digitale risale al periodo 2007-2017 in cui lavoravo come editrice del blog «Selbstdarstellungssucht.de» dove ho iniziato a scrivere il diario di un personaggio fittizio. L’ho poi trasformato in una piattaforma per creare un dialogo più ampio con artisti e creativi. Quella è stata la mia prima esperienza nell’estendere la realtà analogica alla possibilità di creare delle linee temporali con un’identità fluida. Attraverso il mondo virtuale, questo avrebbe in qualche modo influenzato la mia stessa vita. Di conseguenza, il termine riappropriazione si riferisce per me ai possibili ruoli che posso assumere all’interno della società, alla consapevolezza che esistono dei codici a cui posso adattarmi ed altri che invece posso scegliere di cambiare. Interpretare ruoli diversi su internet mi aveva aperto la mente al concetto di fluidità. Il termine post colonialismo è il più ambivalente per me: sono tedesca-ecuadoriana, ma le mie radici ecuadoriane discendono principalmente da un vasto patrimonio di colonialisti europei, la cui storia risale fino alla guerra d’indipendenza di Simón Bolívar. Questi tre termini sono connessi fra loro per il mio interesse nei confronti delle proiezioni altrui, che spesso mi hanno etichettato come esotica, persino indigena, non appena mi riferivo alla mia seconda nazionalità. Descriverei me stessa come nata nel mezzo di nazionalità e religioni, nel campo di tensione del Sud Globale e dell’Europa, e mi ritrovo quindi attratta a scavare in profondità nel punto in cui entrambi si toccano.
EC – Anche i concetti di trauma ed equilibrio sono molto presenti all’interno del tuo lavoro. Penso ad esempio alle tue camminate e al recupero di rami spezzati, ma soprattutto all’importanza che dai alla relazione natura-salute mentale-arte. Quest’attenzione deriva da particolari esperienze personali? Credi sia importante, specialmente al giorno d’oggi, che l’arte si interfacci sempre di più con queste tematiche? O forse ormai è semplicemente inevitabile?
VD: Il concetto di trauma è il principale fattore scatenante della mia pratica artistica. Sì, nasce da un’esperienza personale: durante l’adolescenza ho avuto un incidente che mi ha provocato traumi multipli, inclusa una lesione cerebrale, da cui mi sono dovuta riprendere perché ero impossibilitata a mantenere la concentrazione e ad accedere alla mia memoria quando ero sotto pressione. Poiché già una volta ho perso queste abilità, riuscire ora a focalizzarmi sulle cose ha per me un prezioso valore. Inoltre, capisco cosa vuol dire non avere segni traumatici visibili, ma essere comunque influenzati e limitati da essi. Tuttavia ho imparato ad aggirare questi ostacoli grazie a specifici rituali che mi permettono di focalizzarmi di nuovo su me stessa ed ancorarmi a terra quando vengo sopraffatta dalla pressione. La mia arte è parte di questi rituali. Non c’è solo questa mia personale esperienza traumatica, ma anche il trauma transgenerazionale che ci colpisce in quanto singoli individui all’interno della società in cui siamo nati. Nel mio caso si tratta di un complesso groviglio di traumi derivati dalla Seconda guerra mondiale e dalla violenza coloniale. Dato che la teoria del trauma transgenerazionale implica che il trauma sia ereditato principalmente dalla terza e quarta generazione, penso sia di importanza cruciale discuterne adesso, specialmente rispetto ai traumi di guerra. Abbiamo appena raggiunto la generazione in grado di esaminare le reazioni da trauma, e abbiamo la possibilità di lavorarci su e trasformarne l’impatto – eppure ci sono nuove guerre e conflitti all’orizzonte. È allora inevitabile un nuovo impatto? Non ho risposte a questa domanda. Nessun essere umano raggiunge la morte senza subire traumi, ma ciò che voglio sapere è ciò che rende alcune persone più resilienti rispetto ad altre, e la mia arte mi aiuta in questo tramite delle intuizioni.

EC – Una delle opere di cui vorrei parlare è Medea, che trovo incredibilmente affascinante e mistica, ma allo stesso tempo immersa nella contemporaneità. Come hai sviluppato questo profondo ritualismo? Interessante è soprattutto il rapporto che instauri con la pratica artistica di Joseph Beuys, i cui richiami nel tuo lavoro sono forti – ed espliciti in questa performance. Ti chiederei di raccontarci la storia di quest’opera.
VD: Sono felice che tu riesca a percepire una forte connessione perché ne era letteralmente presente una: per iniziare questo lavoro ho prenotato una seduta spiritica con una Medium per incanalare lo spirito di Joseph Beuys nel giorno del suo compleanno. Tramite la Medium ho avuto la possibilità di entrare in contatto con degli effimeri residui che di lui sono rimasti nell’atmosfera. È stata una conversazione molto interessante, non le avevo detto che stavo chiamando Beuys perché mi aveva detto che non aveva bisogno di saperlo, ma che lei era lì solo per lasciar fluire il messaggio. Ho ottenuto informazioni interessanti e scoperto sincronie incredibili, che hanno influenzato la forma dei successivi rituali: un esempio è la vasca da bagno che Beuys aveva utilizzato per la scultura Jason II. All’improvviso mi sono ricordata di quel preciso modello presente nella tenuta dei miei nonni e ho subito capito che quell’oggetto doveva diventare il cuore stesso della performance. Essendo un’artista donna, ho scelto di interpretare la controparte di Jason, raccontando una nuova storia di come Medea si era curata da sola da un grave trauma mentale ed emotivo. Il suo personaggio richiedeva però di aggiornare i principali materiali utilizzati da Beuys – grasso e feltro – al XXI secolo, usando dell’olio d’oliva e riciclando il feltro dai negozi di ferramenta.


EC – Un’altra opera di cui vorrei chiederti è Wounds of Berlin. In quest’opera i concetti di trauma e di guarigione mi sembrano centrali. Ti va di parlarcene? Durante l’Aware Festival tre stampe sono state purtroppo vandalizzate con uno spray e tu hai scelto di ricoprirne le tracce con la scritta Heile deine Wunde (Guarisci la tua ferita). È stata un’azione che in qualche modo ha dato una seconda vita all’opera e ne ha amplificato il significato. È il motivo per cui hai scelto di ‘’rispondere’’ all’atto vandalico? Qual era il messaggio che volevi trasmettere?
VD: Wounds of Berlin è il primo lavoro che ho fatto in relazione a Joseph Beuys. Era il 2019 ed ero seduta nella metropolitana di Berlino, con i rivestimenti in stile “Jungle Urban” disegnati da Herbert Lindinger. Il tessuto era usurato e per coprire le lacerazioni avevano messo diverse toppe mimetiche. Ho trovato queste toppe sempre più spesso, e ho deciso di documentarle con il mio telefono. Le stampe all’Aware Festival erano degli ingrandimenti collocati all’aperto. È stato interessante notare che un ospite ha dato di matto ed ha deciso di sfogare la sua rabbia contro la BVG spruzzando vernice sulle mie stampe. Tuttora non so che cosa di quelle stampe ha fatto scattare così tanta rabbia. Ma la rabbia è un’emozione che la maggior parte delle volte esplode a causa di ferite nascoste o non affrontate. Il collegamento con l’opera di Joseph Beuys Zeige deine Wunde (Mostra la tua ferita) era lì. Il mio intento era quindi di mostrare l’evoluzione del messaggio di Beuys: al giorno d’oggi non solo mostriamo le nostre ferite, ma sentiamo anche un forte bisogno sociale di guarirle.


EC – L’impressione è che le opere che crei – siano esse fotografie, performance o installazioni – non siano chiuse ed immutabili. La percepisco invece come un’arte in continuo movimento, evoluzione, quasi come fosse un organismo vivente che ci trasmette un profondo senso di dinamismo e fluidità. È corretto vedere la tua arte sotto quest’ottica? Questa connessione tra Arte e Vita è una parte importante del tuo lavoro?
VD: Mi piace che tu abbia usato i termini “dinamismo e fluidità”. Sì, se le mie opere riescono a crescere prendendo diverse direzioni organiche, allora credo di aver raggiunto l’obiettivo. La mia arte è un costante flusso di materia. A seconda dello scenario, le opere si adattano: sono reattive.
EC – Per finire vorrei chiederti dei tuoi prossimi progetti, se stai lavorando a qualcosa di nuovo e le speranze che hai per il futuro. Ma soprattutto, pensi che l’arte possa avere un reale impatto sulle persone e un ruolo significativo all’interno della nostra società?
VD: Ora sto lavorando ad una trilogia cinematografica dal titolo Traces of Life / How to Kill, in cui esploro il concetto di paesaggi culturali: la foresta, il giardino ed internet. Così come sui loro progettisti, che decidono cosa deve vivere (sopravvivere) o morire al fine di mantenere l’ordine programmato. È un lavoro a metà tra il documentario e la performance. Inoltre sono in contatto con un mio collega, Patrick Alan Banfield, per l’organizzazione di un eventuale spettacolo sulla violenza istituzionale e domestica. Le mie speranze per il futuro sono di continuare a fare arte e riuscire a raccogliere sempre più fondi per farla, il che mi porta a rispondere alla tua ultima domanda: vedo l’arte come la materializzazione dell’anima della società.
Intervista di Eva Chemello