L’Arte del mercato dell’arte. Possiamo davvero parlare di una sua democratizzazione?

Il mercato resta sempre a galla

In principio vi era l’Arte. Poi venne il Mercato e, con esso, in un mondo fatto da pochi e per pochi, venne il sistema dell’arte. Negli ultimi decenni le interrelazioni tra arte e mercato sono diventate talmente forti e vincolanti che la consacrazione da parte di quest’ultimo nei confronti di un artista avviene spesso prima di quella effettuata dai musei o dai critici, portandone le quotazioni ad alti – quando non altissimi – livelli, superando spesso di molto il muro del milione di dollari. E in effetti, nel mondo dell’arte contemporanea il prezzo condiziona tutto e tutti, influenzando il modo stesso in cui guardiamo e giudichiamo il Valore (con la maiuscola, quello estetico e di contenuto) di un’opera. L’economista Donald Thompson afferma che oggi

Sono pochi quelli che si azzardano a chiedersi come possa esser venduta come arte quella giacca di pelle buttata nell’angolo di una sala d’aste. DEVE TRATTARSI PER FORZA DI ARTE, se viene presentata a un’asta serale di Sotheby’s, o se la sua stima d’asta equivale al costo di un appartamento o di dieci automobili

D. Thompson, Lo squalo da 12 milioni di dollari. La bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea, 2009

Inoltre, dobbiamo tenere presente che le opere d’arte sono da sempre dei beni rifugio privilegiati: garantiscono cioè un rendimento certo, che cresce nel tempo, anche nei periodi di forte crisi. Lo si è recentemente visto durante il lockdown, quando il mondo intero soffriva, quando le stesse istituzioni culturali rischiavano la chiusura, la compravendita di opere d’arte rimaneva invece costante. Sotheby’s, per esempio, nel pieno della pandemia tra marzo e giugno del 2020 «ha visto le sue vendite quasi quadruplicate rispetto allo stesso periodo del 2019, per un valore di oltre 100 milioni di dollari» (Anche l’arte è un bene rifugio, in ‘’The Way Magazine’’, 2020). Ma forse l’evento più eclatante degli ultimi vent’anni, certamente quello che più rappresenta l’ambiguità, la contraddizione – e il fascino – del sistema dell’arte, è quello che vide come protagonista assoluto l’inglese Damien Hirst. Ricco (ricchissimo) e sfacciato, incarna alla perfezione l’idea contemporanea dell’artista imprenditore di se stesso, realizzando appieno l’idea di Warhol per cui «la Business Art è il gradino subito dopo l’arte» (‘’La filosofia di Andy Warhol’’, in Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca della megalopoli, A. Trimarco, 2009). Parliamo di un singolo evento che riuscì a mettere in discussione i meccanismi del mercato dell’arte portandoli all’ennesima potenza e stravolgendoli: l’asta di Sotheby’s organizzata da Hirst il 15 settembre del 2008 dal titolo Beautiful Inside My Head Forever.

Damien Hirst si mette all’asta

Quel lunedì di settembre la Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari di New York, dichiarò ufficialmente la bancarotta. Il giornalista Davide Maria de Luca affermò che quello «fu il momento in cui divenne chiaro che, molto presto, la crisi avrebbe raggiunto proporzioni globali» (D. M. De Luca, Il fallimento di Lehman Brothers, in ‘’Il Post’’, 2012). E il 2008 in effetti ce lo ricordiamo tutti. Lo stesso giorno e nel momento in cui la crisi finanziaria stava per dilagare trascinando con sé anche parte del sistema dell’arte – di certo non esente da bolle speculative – Hirst diede inizio alle danze. Con un’azione di marketing senza precedenti e bypassando i suoi galleristi di fiducia (immaginate gli sguardi stupefatti – o meglio sgomenti – di Larry Gagosian e Jay Jopling), l’artista mise in vendita più di 220 nuovi lavori portandosi a casa, dopo due folli giornate, quasi 112 MILIONI DI STERLINE DIRETTAMENTE NELLE SUE TASCHE (https://www.sothebys.com/en/auctions/2008/damien-hirst-beautiful-inside-my-head-forever-evening-sale-l08027.html, 2008).

Banditori al lavoro il lunedì da Sotheby’s all’asta di Damien Hirst, Londra, courtesy of Daniel Berehulak/Getty Images.

Il tutto senza commissioni ai suoi collezionisti, galleristi, senza nessun tipo di mediazione tra lui e il pubblico pagante. Insomma, un successone. Uno schiaffo in faccia alla crisi economica (ma anche a chi quel giorno stava perdendo tutto). Hirst dichiarò che gli piaceva ‘’il carattere democratico dell’asta’’ (C. Zampetti, La scommessa in asta di Hirst. Non tutti i collezionisti lo seguono, in ‘’Il Sole 24 Ore’’, 2008) e che la sua, anche se rischiosa, doveva segnare un passo in avanti verso una generale democratizzazione del mercato dell’arte dove vince semplicemente chi fa l’offerta più alta, senza norme o mediazioni.

E negli ultimi anni in effetti si è continuato a sentir parlare di democratizzazione dell’arte, di rendere l’arte di tutti e per tutti, ma cosa succede quando il sistema stesso è creato per soddisfarne pochi? Sembra assurdo, persino ingiusto, che mentre la stragrande maggioranza della popolazione è in difficoltà e fatica a vivere dignitosamente, una piccolissima parte della stessa spende immensi capitali – con svariati zeri – all’interno di una sala d’aste. Ma è così che il sistema funziona, offrendo molto a chi ha di più e lasciando al resto di noi l’entusiasmo in prima pagina dell’ultima vendita record. Viene quindi da chiedersi: quando, dopo una lunga lotta, il banditore aggiudica un acquisto, il pubblico a chi applaude? Che cosa festeggiano? L’ampiezza del portafoglio del compratore? Il suo amore per l’arte? O, in ultima analisi, il suo ego? Qualunque sia la risposta, ciò che Hirst ha voluto dimostrare – che l’abbia fatto per i soldi o per amore di una democratizzazione sta a noi deciderlo – è che il mercato dell’arte, anche nel pieno di una crisi, resta comunque lo squalo più forte. E vinse la sfida.

Damien Hirst in posa davanti a una delle sue opere all’asta Beautiful Inside My Head Forever, courtesy of Shaun Curry/AFP/Getty Images.

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