Transizione e caducità: la fotografia di Alessandra Sanguinetti

Alessandra Sanguinetti, Juana’s legs, 2002 (Magnum Photos).

Alessandra Sanguinetti nasce a New York nel 1968. Si trasferisce in Argentina a soli due anni e lì vive gran parte della sua vita (precisamente fino al 2002). Comincia ad avvicinarsi alla fotografia in tenera età, e questo interesse la porta negli anni a diventare un’acclamata professionista che lavora ed espone in tutto il mondo. Il nucleo tematico e formale più importante della sua opera vede la luce tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, in un’area prettamente rurale, 200 chilometri a sud di Buenos Aires. Sanguinetti, dunque, è legata visceralmente all’ambiente dove le sue immagini prendono vita, e non solo per scelta.  L’artista soffre moltissimo l’usuale rappresentazione fotografica delle pampas argentine, rese spesso in bianco e nero, di cui viene esaltata unicamente l’atmosfera di malinconia e desolazione. Mossa dal desiderio di superare gli stereotipi rappresentativi della sua terra e della sua gente, che raggiungono forse il culmine nel cliché del gaucho, il mandriano a cavallo tanto caro all’immaginario occidentale, Sanguinetti esplora la fotografia tramite la partecipazione, la memoria, la ricchezza del colore. Realizza così la sua prima serie importante, On The Sixth Day, composta da immagini che coprono un arco temporale che va dal 1996 al 2004. Tema di questo lavoro è l’osservazione dell’ambiente rurale argentino dal punto di vista degli animali da fattoria. Lo sguardo della fotografa si mescola a quello delle bestie, al loro stesso livello, eliminando la distinzione tra umano e animale.

Alessandra Sanguinetti, Bloodstained trunk (Magnum Photos).

Queste immagini esprimono anche il forte senso di caducità e precarietà legato alle vite degli animali da allevamento, in bilico tra l’affetto e la morte che i loro padroni possono di volta in volta dispensargli. Ma sarebbe un errore attribuire ciò a un intento di denuncia. Come si può evincere dal titolo di matrice biblica della serie, infatti, Sanguinetti guarda al sacro insito nell’ordinario, nel banale, per trasformarlo in qualcosa degno di nota tramite la fotografia. Tale sacralità risiede nell’occhio impaurito di un animale di fronte al fucile di un uomo, nelle mandrie minacciate dai cani selvatici, nei cuccioli separati dalle proprie madri, insomma, in quella sottile linea di transizione tra la vita e la morte, alla base del rapporto uomo- natura. Un aspetto di cui prendere coscienza, modificando il nostro punto di vista, piuttosto che condannarlo acriticamente.

Alessandra Sanguinetti, Dogs, 1999 (Magnum Photos).

Non manca un certo gusto documentaristico nel rappresentare un lato della vita campestre così importante nella definizione della cultura argentina. Un reportage che però si tinge dei toni della favola, del mito, e in cui il racconto pare sospeso tra premesse e sviluppi indefiniti che spetta all’osservatore immaginare. A questo scopo concorre l’esaltazione del colore da parte della fotografa statunitense, che ricorre principalmente alla tavolozza di sfumature legate alla terra, per rendere finalmente giustizia alla vitalità del paesaggio delle pampas.

Alessandra Sanguinetti, The Necklace, 1999 (Magnum Photos).

On The Sixth Day costituisce il punto di partenza per un’altra raccolta (forse la più famosa) dell’artista. Dal 1999 al 2004, infatti, Sanguinetti sposta il suo sguardo su Guille e Belinda, due cuginette cresciute proprio nella fattoria che aveva fatto da sfondo alla precedente antologia di immagini. Dall’incontro tra la fotografa e le bambine nasce The Adventures of Guille and Belinda and The Enigmatic Meaning of Their Dreams, un insieme di scatti intensamente lirici, in cui Sanguinetti raggiunge la maturità artistica. Attraverso queste opere lo spettatore segue un passaggio, dall’infanzia alla giovinezza, e assiste all’evolversi di una relazione, tra le due cugine, ovviamente, ma anche tra queste e chi le ritrae. La serie The Adventures of Guille and Belinda costituisce la prima mostra personale della fotografa negli Stati Uniti, alla Yossi Milo Gallery di New York, nel 2004.

Appare chiaro in questo lavoro il senso profondo della fotografia di Sanguinetti, un modo per esserci, per partecipare, per esaltare un voyeurismo che vuole testimoniare e non spiare.  Le bambine vengono ritratte sulla linea di confine tra la realisticità e l’apparente casualità delle loro azioni quotidiane, e una messa in scena sapientemente calibrata. Diventano così personaggi teatrali, figure rarefatte, non collocate con precisione nello spazio e nel tempo, semplici emblemi delle aspettative, delle paure e delle fragilità che caratterizzano la transizione dall’infanzia all’età adulta.

Anche qui ritornano, rafforzati, i toni favolistici, fondamentali nel rendere credibile l’unione dell’innocenza dei soggetti raffigurati e dei loro comportamenti con i simboli di precarietà e caducità che li circondano. Conseguentemente è possibile notare un vivace citazionismo con cui l’artista non ha paura di sperimentare, dalla composizione di inusuali nature morte fino ai rimandi alla mitologia o alla letteratura.

La palette di colori messa in risalto da Sanguinetti in questa raccolta si amplia e si intensifica, rispetto a On The Sixth Day. E proprio nell’uso del colore, così come nelle modalità del ritratto, che sfuggono all’idea di “posa” del soggetto ma anzi vogliono cristallizzare momenti di una narrazione, si intravede il debito nei confronti di un’altra grande artista, Nan Golding.

Ciò che emerge con maggior forza dall’attività delle due fotografe è l’esaltazione di quell’esuberanza che caratterizza tutto ciò che è precario, le relazioni, i riti di passaggio, i desideri, i timori.  In sostanza, tutto ciò che è vita. Proprio qui si ritrova il fine ultimo dell’arte di Alessandra Sanguinetti. Nella rappresentazione di un vitalismo che non è inno didascalico, ma celebrazione delle dolorose banalità del quotidiano, fondamentali per la costruzione del nostro Io, e della morte, inevitabile ma necessaria, di piccole parti della nostra esistenza, affinché quell’identità faticosamente conquistata possa evolversi.

Nan Golding, tratto da The Ballad of Sexual Dependency, 1979/1986.

Dionisia Matacchione

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